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VENTICINQUE anni di presenza, impegno e passione per Telefono Donna. L’Associazione, nata nel 1989 come linea telefonica di ascolto e consulenza nei confronti delle donne vittime di violenza fisica e psicologica, nel corso degli anni ha compiuto passi da gigante fornendo un supporto concreto alle fasce più deboli del territorio.

Dal 2001 all’attività di supporto psicologico e giuridico si affianca un altro progetto autonomo ma parallelo: la costituzione della “Casa delle Donne” intitolata alla memoria di Ester Scardaccione, una delle fondatrici di Telefono donna.

Come e perché nasce Telefono donna?

«Prima di costituirci – spiega Cinzia Marroccoli, presidente dell’associazione – per due anni  un gruppo di donne provenienti da ambienti diversi come l’associazionismo, la politica, i sindacati si sono incontrate per discutere di vari temi, per amalgamarsi, con l’obiettivo di realizzare un progetto comune: un centro anti-violenza. All’epoca l’unica forma di violenza riconosciuta era quella sessuale ma sulla scia di alcuni modelli esteri, e partendo dal modello di Telefono donna a Roma e della Casa delle donne a Milano, primo esperimento in Italia,  abbiamo pensato di creare una struttura del genere in Basilicata. I primi centri sono, dunque, tutti collegati al movimento delle donne. Il nostro impegno è di matrice politica nel senso che lavoriamo da sempre per realizzare un vero e proprio cambiamento culturale e non solo di natura assistenziale.  È necessario abbattere ogni stereotipo perché è proprio in questi che si innesca la violenza. Ogni cambiamento deve necessariamente partire dalle donne stesse che devono essere educate a uno sguardo di genere».

Quante donne si sono rivolte a voi sino ad oggi e come si articola il percorso all’interno della casa di accoglienza?

«Dal 2001 siamo state contattate da 1.800 donne e ne abbiamo ospitate 143 con  81 minori. Tramite le nostre consulenze gratuite tanto in campo psicologico che giuridico, abbiamo fatto sì che le vittime acquisissero maggiore consapevolezza di se stesse e dei propri diritti. Il periodo di permanenza nel centro non supera i tre mesi in quanto oltre facilmente si potrebbe incorrere in un dannoso adagio e noi, invece, aiutiamo le nostre assistite a trovare l’autonomia. Molte di loro hanno cambiato residenza, hanno trovato un nuovo lavoro, sono riuscite a rifarsi una famiglia.  Altre, invece, in alcuni casi hanno preferito mantenere l’anonimato preferendo un contatto solo telefonico, in altri casi sono ritornate sui loro passi. Su quest’ultimo aspetto possiamo fare ben poco poiché operiamo nel massimo rispetto delle scelte altrui pur nella consapevolezza che chi è violento difficilmente può cambiare».

All’interno della casa spesso si instaurano stretti legami di solidarietà e condivisione e questo è già un significativo risultato. Ci sono delle storie che l’hanno particolarmente colpita?

«Sì, tante. Ricordo la gioia di una madre che grazie al nostro aiuto è riuscita a trovare pace e serenità all’interno delle mura domestiche; ha assaporato il significato della libertà riuscendo a guardare con le figlie il programma che preferiva in tv e imparando a parlare senza paura anche di argomenti futili. La violenza fisica e psicologica può annidarsi, infatti, nei semplici e consueti gesti del quotidiano. È da qui che bisogna partire».

Come siete riuscite a sopravvivere negli anni? Beneficiate di contributi pubblici? Incontrate difficoltà nel reperire i fondi?

«Dal 2001 abbiamo beneficiato di contributi pubblici regionali che passano attravero il Comune. Questo doppio passaggio, tuttavia,  è penalizzante in termini di tempo e sarebbe auspicabile uno snellimento degli adempimenti burocratici. Grazie al bando regionale “Valore donna” abbiamo avviato tre progetti molto importanti che si articolano in una parte formativa seguita da una work experience.  Sarebbe importante, tuttavia, ricevere dalle istituzioni un maggiore riconoscimento, non solo di natura economica».

Quali sono i progetti per il futuro?

«Immagino per il futuro di poter disporre di una “Casa delle donne” più grande,  immersa nel verde, con all’interno una stanza dei giochi per i più piccoli e una stanza da usare per iniziative pubbliche perché la violenza non è solo di chi la subisce ma appartiene a tutti».  

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