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di SAVERIO PUCCIO

UNA donna vive i propri sentimenti, i legami affettivi, le storie della sua vita con una forza incredibile. Lo noti subito. Quando ti racconta i ricordi e le esperienze, quando alimenta con un gesto o con una parola l’amore per ogni suo caro. È una forza immensa, caparbia, tutta femminile. Ed è così anche quando una donna cresce in una famiglia di ‘ndrangheta. Anzi, in questo caso molto si amplifica, perché spuntano fattori aggiuntivi chiamati “onore” e “fedeltà”. Sviluppati rispetto ai loro significati quotidiani. Lo leggi subito nello sguardo di una donna di ‘ndrangheta. Hai a che fare con una cocciutaggine imparagonabile, con gli scontri più duri, con le difese più strenue, con un legame indissolubile. L’ho visto con i miei occhi, quando ho avuto di fronte nelle mie esperienze di cronista la figlia, la moglie, la mamma di un mafioso. Il loro uomo è innocente. Punto e basta. Anche se aveva lui la pistola in mano davanti al cadavere dell’avversario da eliminare. Le ho viste piangere ed urlare, davanti ai corpi dei loro uomini trucidati. Urlano e piangono con una veemenza che sembra quasi non appartenere ad un essere umano. Mai e poi mai le sentirai contestare le scelte del loro uomo. Qualcuno mi dirà che è un’immagine antica, superata dai tempi, frutto di una visione obsoleta. Ma è così che le ho viste in questi anni. Chiuse nell’abito nero e nella loro fierezza, anche davanti alla bara del loro caro. In questi ambienti sono cresciute Giuseppina, Concetta e Lea. Per questo provo a comprendere quale forza sovrumana possa essere scattata dentro di loro quando hanno deciso di “tradire” questo schema consolidato. Quando hanno pensato di raccontare, denunciare, ricostruire anni di violenze. Quando hanno riflettuto, nella solitudine che loro stesse hanno raccontato, sul futuro che volevano riservare ai propri figli. Perché non può che essere questa l’unica ragione che ha fatto scattare la molla, fino a fare spezzare le catene. Un soffio di libertà prima di tutto per i loro figli, solo dopo per loro. Un sacrificio nel sacrificio. Nella consapevolezza che se da un lato si stava per chiudere una pagina di affetti, dall’altro si poteva avverare il sogno di un futuro diverso. Anche a costo della loro stessa vita. Un dono per il futuro e per la società in cui hanno vissuto. Per questo, il messaggio del direttore Matteo Cosenza non può cadere nel vuoto. Una società che non dovesse raccogliere quel sogno, non solo non avrebbe speranze, ma soprattutto, perderebbe la propria dignità. E ancora di più la terra del Sud è legata all’impegno delle donne. Madri coraggio, che sono state capaci di lavorare nei campi per ore pur di portare un tozzo di pane a casa. Casalinghe e imprenditrici, professioniste e operaie. Per anni abbiamo dedicato loro un 8 marzo figlio di una visione consumistica e lontana anni luce dal suo vero significato. Scriveva bene Matteo Cosenza, sottolineando una giornata trascorsa a regalare un ramoscello di mimosa con un pacco di cioccolatini, oppure una cena a lume di candela nel ristorante alla moda. Quest’anno non può andare così. Non lo meritano Giuseppina, Concetta e Lea. E non lo meritano tutte quelle donne che hanno deciso di ribellarsi. Come la figlia di Lea Garofalo che, dopo avere visto morire la madre per quella scelta, ha deciso di tenere in vita la sua voglia di libertà. La mimosa di quest’anno avrà la loro immagine. Sarà la riflessione più profonda che questa terra deve fare, se intende cambiare veramente. Sarà un simbolo che deve allargare gli orizzonti. In questa direzione, lontani da una liturgia spenta, occorre legare ogni istante dell’8 marzo ad un messaggio nuovo. Lo faranno i cittadini calabresi che ci credono. Ma potranno farlo, con un gesto di partecipazione pubblico e plateale, anche le Istituzioni calabresi. I Comuni, le Province, la Regione, la Scuola, i presidi dello Stato, gli uffici pubblici, espongano per la giornata dell’8 marzo le bandiere a mezz’asta. Sarà un altro messaggio chiaro e inequivocabile che nessuno ha intenzione di accettare l’arroganza e la prepotenza ‘ndranghetista. Un altro simbolo. Per testimoniare che anche le istituzioni non hanno alcuna intenzione di girarsi dall’altra parte. Con le bandiere a mezz’asta anche loro indichino con chiarezza che, nel giorno delle mimose, in cima a tutti i pensieri ci sono le donne che hanno deciso da che parte stare, sapendo a cosa stavano andando incontro. Donne che hanno pagato con la vita l’avere scelto la legalità e la giustizia. Che hanno pagato a caro prezzo la volontà di costruire una Calabria migliore. Sarà il più bel regalo che ognuno di noi potrà fare a tutte le donne. Sarà il simbolo di quella gente di Calabria che ha compreso che questa terra può diventare un’altra cosa. Senza tentennamenti. Altrimenti, come diceva Einstein, non possiamo sperare che le cose cambino se facciamo sempre le stesse cose.

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