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di PINO SURIANO
NOVA SIRI – Si può prendere la Basilicata, girarla in lungo e in largo e rivoltarla come un calzino, ma non si troverà mai una “cosa” come quella che ha fatto qui don Tommaso Latronico.
Se ne potranno trovare di diverse, per qualcuno anche migliori, e si potranno giudicare le sue opere con severità e scetticismo, ma un’altra “cosa” del genere non si troverà. 
Si spense il 20 luglio 1993, vent’anni oggi, quando lo stroncò una terribile leucemia. Eppure quasi viene difficile scrivere che “non c’è più”. Bisogna stare a Nova Siri, tra quelli che lo hanno conosciuto, per cogliere questa strana contraddizione che permea l’aria; questa assenza che proprio non ce la fa a non essere presenza.
Don Tommaso ancora c’è, nell’intitolazione di aule e palazzetti in suo onore, nell’anima di tante iniziative lavorative avviate sotto il suo impulso, ma soprattutto nel pensiero e nella preghiera costante dei suoi amici, o nel ricordo di tanti altri, magari anche rammaricato (“quando c’era lui era tutto diverso, ora invece…”). Forse si riesce a dare un’immagine concreta di questo clima quasi surreale: chiunque lo abbia conosciuto, anche solo di striscio, non appena si fa il suo nome, diventa più serio, non serioso ma serio. 
E’ una cosa strana, magari si sta scherzando e parlando rilassati, ma quel solo nome basta a cambiare il clima e i volti; mette sul piatto una tensione diversa, o chissà cosa. E’ quasi una sacralità, non mistica, bensì familiare, vicina.
Ma perché? Cosa ha portato don Tommaso? Cos’è questa “cosa” che ha comunicato? Si  capisce dopo aver letto i suoi pensieri dal libro di scritti e testimonianze, che ha raccolto il parroco di Nova Siri, don Mario La Colla, e che sarà diffuso nei prossimi giorni (si veda il box in pagina). Dopo tanti indugi, l’espressione più bella è quella metafora coniata da un missionario instancabile e creativo morto in Perù pochi anni fa, Andrea Aziani: “Febbre di vita”. 
Sì, don Tommaso ha diffuso, quasi fosse un virus, una febbre di vita: uno slancio sulle cose, una passione, una voglia di affrontarle, capirle, goderle, “mangiarsi il mondo”. C’entrava il Cristianesimo, ma in un modo speciale e mai visto in Basilicata prima d’allora. Si chiamava, si chiama, Comunione e Liberazione. Era qualcosa che aveva un’espressione, per così dire, socialmente visibile: si facevano feste, vacanze in montagna, ci si sosteneva economicamente, ci si metteva a vivere e pregare insieme a scuola o all’università, a leggere e a studiare (don Tommaso amava l’Eneide), fino a lanciarsi  (e perché no?) nell’agone politico.
C’era un amico che aveva un problema? Diventava subito anche il suo. Da risolvere, mobilitando risorse, conoscenze, idee. E così imparava a fare (o meglio, si ritrovava a fare) anche chi stava con lui. Alcuni gli resistevano, magari lo odiavano mentre lui continuava a discutere e a proporsi, anche con durezza, ma non odiava mai. E così molti di quei vecchi avversari, alla fine, si trovavano a seguirlo.
“Andiamo a Nova Siri per il giro della gente che c’è”, dicevano Giancarlo Cesana e Peppino Zola, tra i principali leader del Movimento di Comunione e Liberazione negli anni ‘80, come se quell’esperienza di fede avesse lì, in quel lembo dello Jonio, un bagliore speciale.
I volti delle foto in pagina danno un’immagine di quella sicurezza, coscienza, febbre di vita, “baldanza” (il copyright è di Luigi Giussani), che tante testimonianze scritte comunicano. Si spera suggeriscano la curiosità profonda: cosa c’era di così bello in quegli istanti, in quell’amicizia?
E, dunque, come ha fatto don Tommaso? Bhe’, una febbre si comunica per contagio, portandola addosso. Don Tommaso, infatti, la portava addosso e lui stesso,  l’aveva ricevuta per contagio, incontrando a Roma don Giacomo Tantardini (1946-2012), tra i più cari amici italiani dell’ex cardinale Jorge Bergoglio, ma soprattutto uomo ferito (“attratto”, amava dire lui), da quel genio della Chiesa moderna, che risponde al nome di don Luigi Giussani (1922-2005), del quale anche don Tommaso fu caro amico.
Abbiamo letto il libro in anteprima, abbiamo letto i suoi pensieri, con curiosità, aspettandoci una conferma a quanto già si sapeva di Gesù e della Chiesa. Ne siamo usciti storditi: c’era qualcosa di più, una percezione delle cose che raramente avevamo avvicinato, sempre profondissima. Eppure un tema sembra onnipresente, esplicito o in sottofondo: all’inizio del cambiamento, di ogni consistenza della vita, c’è un incontro. L’incontro, parola decisiva per don Giussani, era carissima anche a lui. Ebbene, cosa ha incontrato don Tommaso? Basta chiederlo ai suoi testi. Risponde con una sola parola: Gesù, uno al quale in quelle pagine si dà del Tu. La vita di don Tommaso è una di quelle che fanno pensare a Gesù non come a una rarefatta essenza spirituale, ma una cosa concretissima che cambia la vita. Ricordare lui che non c’è più, oggi, riapre la speranza sulla possibilità di incontrare Gesù. Il quale, invece, ancora c’è. In fondo don Tommaso ha vissuto per questo. Anzi, ha vissuto “di” questo.

Si può prendere la Basilicata, girarla in lungo e in largo e rivoltarla come un calzino, ma non si troverà mai una “cosa” come quella che ha fatto qui don Tommaso Latronico.Se ne potranno trovare di diverse, per qualcuno anche migliori, e si potranno giudicare le sue opere con severità e scetticismo, ma un’altra “cosa” del genere non si troverà. Si spense il 20 luglio 1993, vent’anni oggi, quando lo stroncò una terribile leucemia.

 

 Eppure quasi viene difficile scrivere che “non c’è più”. Bisogna stare a Nova Siri, tra quelli che lo hanno conosciuto, per cogliere questa strana contraddizione che permea l’aria; questa assenza che proprio non ce la fa a non essere presenza.

Don Tommaso ancora c’è, nell’intitolazione di aule e palazzetti in suo onore, nell’anima di tante iniziative lavorative avviate sotto il suo impulso, ma soprattutto nel pensiero e nella preghiera costante dei suoi amici, o nel ricordo di tanti altri, magari anche rammaricato (“quando c’era lui era tutto diverso, ora invece…”). Forse si riesce a dare un’immagine concreta di questo clima quasi surreale: chiunque lo abbia conosciuto, anche solo di striscio, non appena si fa il suo nome, diventa più serio, non serioso ma serio. 

E’ una cosa strana, magari si sta scherzando e parlando rilassati, ma quel solo nome basta a cambiare il clima e i volti; mette sul piatto una tensione diversa, o chissà cosa. E’ quasi una sacralità, non mistica, bensì familiare, vicina.Ma perché? Cosa ha portato don Tommaso? Cos’è questa “cosa” che ha comunicato? Si  capisce dopo aver letto i suoi pensieri dal libro di scritti e testimonianze, che ha raccolto il parroco di Nova Siri, don Mario La Colla, e che sarà diffuso nei prossimi giorni (si veda il box in pagina). Dopo tanti indugi, l’espressione più bella è quella metafora coniata da un missionario instancabile e creativo morto in Perù pochi anni fa, Andrea Aziani: “Febbre di vita”. Sì, don Tommaso ha diffuso, quasi fosse un virus, una febbre di vita: uno slancio sulle cose, una passione, una voglia di affrontarle, capirle, goderle, “mangiarsi il mondo”. C’entrava il Cristianesimo, ma in un modo speciale e mai visto in Basilicata prima d’allora. Si chiamava, si chiama, Comunione e Liberazione. 

Era qualcosa che aveva un’espressione, per così dire, socialmente visibile: si facevano feste, vacanze in montagna, ci si sosteneva economicamente, ci si metteva a vivere e pregare insieme a scuola o all’università, a leggere e a studiare (don Tommaso amava l’Eneide), fino a lanciarsi  (e perché no?) nell’agone politico.C’era un amico che aveva un problema? Diventava subito anche il suo. Da risolvere, mobilitando risorse, conoscenze, idee. 

E così imparava a fare (o meglio, si ritrovava a fare) anche chi stava con lui. Alcuni gli resistevano, magari lo odiavano mentre lui continuava a discutere e a proporsi, anche con durezza, ma non odiava mai. E così molti di quei vecchi avversari, alla fine, si trovavano a seguirlo.“Andiamo a Nova Siri per il giro della gente che c’è”, dicevano Giancarlo Cesana e Peppino Zola, tra i principali leader del Movimento di Comunione e Liberazione negli anni ‘80, come se quell’esperienza di fede avesse lì, in quel lembo dello Jonio, un bagliore speciale.I volti delle foto in pagina danno un’immagine di quella sicurezza, coscienza, febbre di vita, “baldanza” (il copyright è di Luigi Giussani), che tante testimonianze scritte comunicano. Si spera suggeriscano la curiosità profonda: cosa c’era di così bello in quegli istanti, in quell’amicizia?E, dunque, come ha fatto don Tommaso? Bhe’, una febbre si comunica per contagio, portandola addosso. 

Don Tommaso, infatti, la portava addosso e lui stesso,  l’aveva ricevuta per contagio, incontrando a Roma don Giacomo Tantardini (1946-2012), tra i più cari amici italiani dell’ex cardinale Jorge Bergoglio, ma soprattutto uomo ferito (“attratto”, amava dire lui), da quel genio della Chiesa moderna, che risponde al nome di don Luigi Giussani (1922-2005), del quale anche don Tommaso fu caro amico.Abbiamo letto il libro in anteprima, abbiamo letto i suoi pensieri, con curiosità, aspettandoci una conferma a quanto già si sapeva di Gesù e della Chiesa. Ne siamo usciti storditi: c’era qualcosa di più, una percezione delle cose che raramente avevamo avvicinato, sempre profondissima. Eppure un tema sembra onnipresente, esplicito o in sottofondo: all’inizio del cambiamento, di ogni consistenza della vita, c’è un incontro. L’incontro, parola decisiva per don Giussani, era carissima anche a lui. 

Ebbene, cosa ha incontrato don Tommaso? Basta chiederlo ai suoi testi. Risponde con una sola parola: Gesù, uno al quale in quelle pagine si dà del Tu. La vita di don Tommaso è una di quelle che fanno pensare a Gesù non come a una rarefatta essenza spirituale, ma una cosa concretissima che cambia la vita. Ricordare lui che non c’è più, oggi, riapre la speranza sulla possibilità di incontrare Gesù. Il quale, invece, ancora c’è. In fondo don Tommaso ha vissuto per questo. Anzi, ha vissuto “di” questo.

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