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di ENNIO STAMILE

A volte, anche dalle pagine di questo giornale, oso proporre all’attenzione dei lettori delle note di commento su alcuni eventi che accadono in Calabria, in Italia e all’estero. Francamente, non avrei mai potuto neanche lontanamente immaginare che sarei stato costretto a farlo su un fatto che riguarda la mia persona e soprattutto il mio ministero. Ho usato volutamente il termine “costretto”, primo perché ne avrei fatto volentieri a meno, poi perché in casi simili, come è ovvio, non dev’essere l’interessato a scrivere. Chiedo venia ai lettori anche per questo. In questi giorni, mi vado sempre più convincendo che i potenti mezzi di comunicazione di cui tutti possiamo fruire spesso non aiutano a leggere correttamente i fatti che accadono nella nostra quotidianità.
I motivi sono molteplici, fra questi, quello che più fa specie, è quel particolare “filtro culturale e ideologico” attraverso il quale vengono interpretati. Nel mio caso, ad esempio, vista l’enfasi mediatica con la quale è stata divulgata la notizia, ho subito chiarito di «non essere un eroe e che la Calabria non ha bisogno di eroi, ma di persone che si sforzano di fare quotidianamente il loro dovere. Di non essere neanche un prete “anti” qualcosa o qualcuno». In Italia siamo arrivati al punto in cui, paradossalmente, chi fa il proprio dovere viene ritenuto un eroe nazionale che dev’essere addirittura premiato. Inoltre, ho evidenziato di essere semplicemente un prete e che il ministero sacerdotale – e non solo quello giacché il battesimo ci rende tutti oltre che sacerdoti anche re e profeti – prevede l’esercizio della profezia attraverso i diversi volti della stessa: annunciare, denunciare, rinunciare, oltre che la profezia come comunione e come speranza. La denuncia per noi sacerdoti è sempre tesa a tener in debita considerazione la necessaria distinzione tra l’errore e l’errante. Siamo chiamati a denunciare il male e non a condannare l’uomo che lo compie.
Il nostro è un difficile compito educativo teso al riconoscimento del male che l’uomo sperimenta fuori da sé, nel cuore del fratello, come specchio di quello che ognuno di noi si porta dentro. Solo così evitiamo di cadere nella trappola diabolica di ritenere il male che vediamo fuori un obbrobrio, quello che sperimentiamo dentro, conforme al nostro essere a tal punto da ripetere a mo’ di autogiustificazione: «In fondo siamo fatti così». Il nostro, inoltre, è un preciso mandato ad annunciare la misericordia di Dio nei confronti di tutti gli uomini anche nei confronti di coloro, e sono tanti, che si ritengono giusti. Anche quando denunciamo, quindi, lo facciamo per offrire una occasione di conversione. Ma questo, purtroppo, a volte viene travisato e letto come una sorta di sfida spesso con la complicità di alcuni giornali che farebbero un grande servizio alla pubblica informazione se si dedicassero solo, ed esclusivamente, alle notizie relative al traffico ed al clima… Anche per il caso che mi riguarda sono state dette e scritte diverse notizie non corrette. Innanzitutto, circa il presunto colpevole che si sarebbe costituito alle forze dell’ordine dichiarando di aver agito per una ritorsione nei miei confronti per non averlo aiutato a trovare un posto di lavoro. A parte ciò che ho già dichiarato – e che come al solito è stato ripreso solo in parte – che cioè gli inquirenti non hanno ancora comunicato nulla di ufficiale e che stanno ancora indagando, non ci vuole nessuna capacità investigativa alla “Don Matteo” per comprendere che questo tipo di ritorsioni è avvenuto in due momenti ben precisi: di pomeriggio e in pubblica piazza l’auto; ancora di pomeriggio la testa di maiale mozzata con un pezzo di stoffa attorno alla bocca, che ha un significato preciso comprensibile ripeto, a tutti, anche ai novelli Sherlock Holmes: «Devi tacere».
I livelli “alti” delle ’ndrine non avrebbero mai fatto un errore così madornale quello, cioè, di attirare l’attenzione della stampa nazionale e delle forze dell’ordine che, tra l’altro, stanno facendo un ottimo lavoro che sta portando i suoi frutti. Allora, evidentemente, si tratta di “dilettanti allo sbaraglio” (in tutti i sensi) da poco coalizzati per raggiungere scopi delittuosi di “bassa manovalanza”.
Ma quello che non si riesce a comprendere, e che anche se dovesse risultare vera la confessione del presunto colpevole con le sue dichiarazioni “spontanee”, è che non è vero che la mafia non c’entra. C’entra eccome! Anche quest’ultimo (ritorsione-avvertimento) è un gesto di prepotenza mafiosa, dimostrazione di quella “mentalità mafiosa” molto più diffusa di quanto si possa pensare non solo in Calabria, addirittura più pericolosa della ’ndrangheta stessa. Fatta di logica dell’appartenenza, di collusione, di zona grigia, di raccomandazioni da chiedere al potente di turno, di mancanza di trasparenza, di rifiuto della legalità, di scarso interesse per il bene comune, di sfruttamento delle risorse ambientali secondo il proprio uso e consumo, di riciclaggio di denaro, di omertà, di omissioni, di prestanomi e… chi più ne ha più ne aggiunga… Venerdì 10 febbraio ho incontrato, insieme al sindaco di Cetraro, i ragazzi del liceo di Belvedere che mi hanno invitato a parlare di legalità. In marzo incontrerò gli universitari della Cattolica di Milano e i ragazzi delle scuole medie e superiori di Pisa. Dio sa trarre anche dal male che noi compiamo il bene. Impegniamoci a farlo anche noi semplicemente, per dirla alla Baden Powell, «per lasciare il mondo meglio di come lo abbiamo trovato».

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