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POTENZA – Vent’anni fa Mauro Ventra ha massacrato la moglie, ed era ancora sporco di sangue e fango quando ha confessato tutto al commissariato di Melfi. E’ stato condannato all’ergastolo e adesso chiede che gli venga riconosciuto l’indulto di 3 anni di pena approvato nel 2006. Per poter chiudere il conto con la giustizia. Quella degli uomini. E affrontare la vecchiaia solo col suo rimorso. Ma almeno fuori di prigione.
Tornerà in aula il caso del camionista melfitano che nel 1995 uccise la compagna Lucia Maria Sibilani, 35 anni, con cui aveva avuto anche due figli.
Lo ha deciso la Corte di cassazione dopo che l’istanza di Ventra era stata dichiarata inammissibile dai magistrati della corte d’assise di Potenza.
Ventra si è rivolto agli ermellini di via Arenula in prima persona, senza nemmeno l’assistenza di un legale. Per una questione di diritto, che in realtà attiene alla stessa idea di giustizia. Oltre che al senso del marchio sulla carne di tanti reclusi senza fine pena. Costretti in carcere da un sistema che parla di riabilitazione e diritti umani. Ma riconosce ancora la legittimità di una condanna perpetua.
La Corte ha rinviato le carte nel capoluogo lucano riqualificando d’ufficio il ricorso di Ventra, che oggi ha 64 anni, come opposizione all’ordinanza di inammissibilità della sua istanza liquidata come «la mera riproposizione di richiesta già rigettata». Anche perché «l’indulto non poteva essere applicato alla pena perpetua dell’ergastolo».
I giudici della Corte d’assise d’appello dovranno tornare sul tema, e decidere «con le garanzie del contraddittorio camerale». Anche se l’esito potrebbe apparire scontato visto il precedente e l’orientamento della stessa Cassazione sulla questione.
«La specifica connotazione dell’ergastolo, ossia la perpetuità – scrivevano i giudici della corte suprema nel 2011 – è ontologicamente incompatibile con tutte quelle cause estintive della pena che presuppongono, ai fini della loro applicazione, una durata definita nel tempo».
Nonostante la Convenzione europea dei diritti dell’uomo vieti in astratto trattamenti degradanti per chi viene riconosciuto colpevole anche del peggiore dei crimini.
E questo sembra essere proprio uno di quelli.
Ventra nel 1995 aveva 44 anni e da 12 viveva con la moglie, dopo una “fuga d’amore” che gli era costata alcuni mesi di prigione per sequestro di persona.
Poi si erano sposati ed erano andati a vivere a Milano, ma il loro rapporto era stato sempre turbolento. E nell’ultimo periodo era degenerato perché lei gli aveva confessato l’intenzione di separarsi.
Tornati a Melfi coi figli, per un soggiorno a casa dei parenti, la sera del 26 agosto erano usciti da soli con l’Alfa 33 di lui. Per una passeggiata chirificatrice. Ma arrivati in contrada Puzzacchio, nella frazione Leonessa, la discussione era degenerata in maniera violenta. Ventra ha iniziato a picchiare la donna, che ha cercato di fuggire nei campi. Poi l’ha inseguita e una volta raggiunta l’ha colpita ancora e le ha stretto al collo un filo di ferro. Le ha sfondato la tempia con un attrezzo metallico, e poi l’ha legata con un cavo da traino all’auto trascinandola sanguinante fino a un avvallamento pieno di fanghiglia per la pioggia caduta in quei giorni.
Quando i vigili del fuoco l’hanno ritrovata aveva ancora il filo di ferro e il cavo avvolti sul collo.
Grazie alla sua confessione non è stato difficile per gli investigatori coordinati dal pm Renato Arminio ricostruire l’accaduto. E nel giro di due anni mezzo è arrivata la sentenza d’appello all’ergastolo per omicidio pluriaggravato.
La vicenda rimbalzò sui principali notiziari nazionali, quando il concetto di “femminicidio” non era ancora diffuso. Per l’efferatezza del gesto, e il sospetto che la tragedia si poteva evitare.
Da quella folle notte Ventra è rimasto in carcere, e soltanto adesso, trascorsi vent’anni, la legge prevede che possa chiedere l’ammissione al regime di semilibertà. Una licenza concessa soltanto «quando vi sono le condizioni per un graduale reinserimento del soggetto nella società». Cosa che potrebbe sembrare di per sé una contraddizione per chi è condannato al carcere a vita.
Lucia Maria Sibilani lavorava come impiegata all’Accademia di Brera. Agli agenti del commissariato di Melfi Ventra aveva detto di non sapere se era ancora viva quando si è costituito. Offrendosi di accompagnarli nel posto dove l’aveva lasciata.

l.amato@luedi.it

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