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In due secoli dal declino alla rinascita. In un lungo reportage già pubblicato sul web oltre che nel numero in edicola, il New Yorker – tra i periodici più influenti del panorama mondiale coi suoi novant’anni di storia tondi tondi e uno zoccolo duro tra i lettori “lib” statunitensi e non solo – racconta il miracolo delle grotte e di un territorio accostato alla California del nord per il modo in cui i ristoratori rendono partecipi delle proprie tradizioni i clienti.
L’inviato D. T. Max, complici anche le foto mozzafiato di Simon Norfolk, nel pezzo titolato “A cave with a view” (“Grotta con vista”, mutuato dal celebre film di James Ivory) annota come il declino di Matera cominciò nel 1806 con la decisione di Giuseppe Bonaparte di spostare la sede del governo regionale a Potenza. Racconta poi la vita sedimentata nei secoli attorno ai nuclei primordiali dei “vicinati” e la fama di un popolo «orgoglioso e autosufficiente». In un lungo excursus introduttivo, il reporter racconta di come già nel 1902 il primo ministro Giuseppe Zanardelli, in visita nei Sassi, sollecitò la costruzione di nuove ferrovie. Ma di lì al 1926, il passaggio dell’archeologo Umberto Zanotti Bianco cristallizzò la situazione nella desolante definizione di Matera come un girone dantesco. Poi i riferimenti al Sud arretrato di Carlo Levi e al dopoguerra tra luci e ombre: i timori del leader democristiano Alcide de Gasperi, che nel 1950 temeva la scomparsa delle vestigia di un glorioso passato. Appena due anni e i Sassi furono abbandonati (quelli più pericolanti) o rinnovati: era il primo passo verso il risanamento. Così il Piano Marshall ha offerto la speranza di una “normalizzazione” di un patrimonio unico al mondo, minacciato nei decenni da squatters (occupanti), droga e prostituzione. La testata di punta del colosso Condé Nast non dimentica di citare i laboratori degli artisti che fanno i cucù, fischietti a forma di uccellini, per presentare la peculiarità di un luogo che tra vecchi e nuovi simboli approda, nel 1993, al riconoscimento Unesco. «Che il turismo inizi davvero», fu il motto. Max cita l’insegnante in pensione Nicola Rizzi e l’operazione di riconversione dei Sassi in ristoranti, negozi e alberghi, definendo la Capitale della cultura 2019 «una piccola Bologna» grazie alla sua sede universitaria e al conservatorio che la rendono una città piena di giovani e studenti. E poi il turismo culturale ancora non divenuto di massa: la mostra su Pasolini appena conclusa, il festival settembrino che coniuga donne e fiction e quello jazz, infine il Museo archeologico ospitato in un ex convento.
«Potete giocare a minigolf in un sotterraneo e provare la cucina povera nei nuovi ristoranti: ceci, fave e peperoni cruschi (definiti “crushed”, ndr), oppure una deliziosissima specialità chiamata “ciallèdd”, che coniuga uova, pane e fiori che crescono nella vicina Murgia».
Per ciceroni, l’inviato del New Yorker sceglie il sindaco Adduce ma anche Vito Festa, figura di intellettuale che ben conosce le viscere della città. E rimane favorevolmente colpito anche dal logo ufficiale di Matera 2019, sei rami che riportano alla conformazione della città vecchia o all’intricato sistema di acque. È un logo che ricorre «con frequenza pynchoniana», scrive D. T. Max riferendosi all’autore cult di “Vizio di forma”. È la parabola virtuosa che Anne Parmly Toxey, autrice di “Materan Contradictions,” ha descritto nei 25 anni che partendo da un territorio «troglodito» (è proprio questo il termine usato) sono approdati a disegnare una città moderna e benestante. Infine un riferimento al direttore artistico di Matera 2019, Joseph Grima, e al suo «approccio anti-città olimpica»: a parte la sala concerti mobile in legno ideata da Renzo Piano qualche anno fa per un evento milanese, come paesaggio basta quello naturale della città dei Sassi.

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