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BENCHÈ parte della mia famiglia viva a Matera, ho cominciato a frequentare assiduamente la città solo pochi anni addietro. Ne ho apprezzato i pregi e i difetti, ma ho sempre creduto fosse la super-favorita per il titolo di Capitale Europea della Cultura 2019 e non per il patrimonio artistico e culturale, certamente importante ma, diciamolo con franchezza, non paragonabile a quello di Perugia-Assisi o di Lecce o di Ravenna.
Andavo dicendo da tempo ad amici e colleghi che la città aveva un quid dato dal tessuto sociale e da una visione avveniristica del ruolo che s’accinge ad avere per il 2019. Cerco di argomentare meglio questo punto.
La designazione di qualche giorno addietro non è stata una vittoria di Matera, dei Sassi, delle Chiese rupestri, ma dei Materani. Sono loro che hanno saputo trasformare uno spazio urbano in un luogo piacevole da vivere, denso di relazioni ed interazioni, intriso di iniziative e di slanci, casa di artisti, imprenditori, startupper. Matera non ha vinto perché Pasolini vi ha ambientato “Il Vangelo Secondo Matteo” o perché è stata la location di “The Passion”; ha convinto invece con una proposta rivoluzionaria rispetto alle passate capitali della cultura: ha immaginato il suo futuro e lo ha fatto con una splendida azione corale. Come una metafora del jazz, i Materani e le associazioni hanno operato autonomamente, apparentemente stonando, in realtà, seguendo un canovaccio magistralmente definito da Paolo Verri, il quale ha saputo narrare l’identità della città. Ci abbiamo creduto, ci hanno creduto fortemente e questo è divenuto un collante sociale che trasformerà e rafforzerà ulteriormente il tessuto urbano.
E poi c’è un punto che mi ha davvero colpito favorevolmente. Il ruolo della politica ridotto al minimo indispensabile, ovvero riportato nell’alveo minimale in cui dovrebbe essere relegato, in contesti in cui una nascente e vigorosa società civile riesce a guidare i processi di sviluppo locale. Salvatore Adduce è stato sempre presente, ma non ha mai imposto la sua presenza; ha saputo accompagnare la città, è stato parte del processo, non è stato preda di facili personalismi.
E mentre Matera gioisce, Potenza è ripiegata sui problemi del suo bilancio. Anche se ho visto dichiarazioni e ricostruzioni fantasiose, i numeri nelle mani del Ministero sono quelli evidenziati dall’ex sindaco Sampogna qualche mese addietro. I margini di manovra sono dunque bassi e la probabilità di evitare il dissesto è ridotta davvero al lumicino. Ma non è questa una buona ragione per non pensare al proprio futuro.
Potenza ha mantenuto nei decenni una sorta di struttura sociale di stampo feudale; finanche quel poco di beni culturali offerti sono appannaggio di pochi. Questo eccesso di potere tramandato in alcune, poche, famiglie, unitamente ad uno spazio costruito fatto di mostri di cemento inenarrabili ha prodotto la decostruzione del Potentino. Il Potentino non esiste, non ha un’identità forte, non riesce a cooperare per il bene comune.
Però, ho visto ed incontrato molti giovani di recente: alcuni devono ancora trovare il coraggio di affrancarsi dai propri padri, altri emanano entusiasmo e voglia di fare, spesso, però, non incanalata efficacemente. Ho avuto notizia di splendide iniziative come quella di Serpentone Reload, quella sul Ponte Musmeci di Sara Lorusso, quella sulla Città del disagio. Potenza è questa: una città con enormi periferie fortificate che annientano qualsiasi tentativo di relazione sociale. Potenza non può e non deve scimmiottare Matera sulla cultura, ma può e deve ripartire dalle periferie più degradate, stimolare la partecipazione al bene comune, ripulire i luoghi di ritrovo, far ripartire l’azione collettiva, l’associazionismo e la cooperazione.
Al di là del bilancio, questione sicuramente grave, la città deve ripensare lo spazio relazionale (e lasciamo in pace quello costruito, per una volta!) e per fare questo è necessario che qualcuno riesca a narrarne l’identità e porsi un obiettivo concreto di avanzamento sociale. Abbiamo bisogno di un collettore di forze ed idee che riesca ad elaborarle ed incanalarle. Bisogna darsi questa occasione.

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