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POTENZA – «Non sono un collaboratore di giustizia». Lo ha ribadito con forza, in videoconferenza dalla sezione 41bis del carcere dell’Aquila, Carmine Campanella: 51enne potentino considerato il “gancio” tra il clan Cossidente e l’ex vicepresidente della giunta regionale Agatino Mancusi.
Si è conclusa così ieri mattina l’ultima udienza sui rapporti tra mala e politica nel capoluogo.
Il processo è stato aggiornato al 15 dicembre per il prosieguo delle discussioni delle difese sulla richiesta di rinvio a giudizio avanzata dal pm Francesco Basentini.
Poi sarà il turno di Roberto Galante, ex re delle preferenze dell’assise comunale potentina, che sempre ieri ha optato per il giudizio abbreviato.
Il gup Tiziana Petrocelli ha accolto la richiesta avanzata dal suo legale di fiducia, Alessandro Singetta, ma a condizione di sentire come testimone Antonio Cleopazzo, rivale di Galante – all’epoca dei fatti – per una questione di natura sentimentale.
Nel capo d’imputazione a carico di Galante si parla proprio della “protezione personale” che il boss Antonio Cossidente, collaboratore di giustizia dal 2010, gli avrebbe assicurato. Ma a maggio l’ex consigliere regionale aveva rovesciato l’accusa nei suoi confronti. Per questo il gup, anche su sollecitazione del pm Basentini, ha deciso approfondire la questione.
Galante è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa assieme a Mancusi, all’ex consigliere regionale Luigi Scaglione e l’ex consigliere d’amministrazione di Acqua spa, Luigi Biscione.
Ma tra gli imputati risultano anche l’ex assessore del capoluogo Rocco Lepore, già condannato in primo grado a 7 anni per concorso esterno nel clan Cossidente, Michele Di Bello e lo stesso boss Cossidente, per aver dato fuoco alla porta dello studio dell’avvocato Massimo Molinari, che era in contrasto con Lepore per ragioni politiche.
Poi ci sono Campanella, che è accusato di estorsione, e Paolo Santangelo, parente di Galante, che risponde di false informazioni al pm.
Ieri in udienza Mancusi ha voluto essere di presente di persona per assistere alle difese dei suoi legali, gli avvocati Donatello Cimadomo e Paolo Carbone, che hanno ribadito chiesto il proscioglimento dell’ex segretario regionale dell’Udc.
Secondo l’accusa, Mancusi avrebbe favorito l’assunzione di alcune persone vicine al clan dei basilischi, in cambio del sostegno elettorale alle elezioni comunali di Potenza del 2004 e quelle regionali dell’anno successivo. Tra questi Campanella, impiegato in una fabbrica di Tito Scalo grazie all’intercessione, secondo la procura antimafia del capoluogo, proprio di Agatino Mancusi.
Agli atti dell’inchiesta ci sono diversi contatti telefonici tra i due, anche in relazione all’organizzazione di presunte “riunioni elettorali” in alcuni ristoranti del potentino.
«Non parlar male degli amici che meritano rispetto perché qualcuno di questi potrebbe offendersi… e ti viene a tagliare la testa».
Così Mancusi nel 2004 ammoniva il suo candidato Biscione, appena uscito sconfitto dalle elezioni comunali nonostante l’appoggio promesso dagli «amici», che già si occupavano della sicurezza allo stadio. Perché sebbene il presidente di allora Potenza sport club «voleva far venire i napoletani», l’allora consigliere regionale di Forza Italia – che poi sarebbe diventato vicepresidente della giunta regionale – aveva in mente ben altri progetti. «Ho detto: “Quali napoletani! Ma perché gli amici nostri sono coglioni? Chiamiamo agli amici”». Queste sono le parole di Mancusi al luogotenente del boss registrate nei nastri dei carabinieri che lo tenevano sotto controllo per i suoi traffici di cocaina: «E’ una forma di rispetto nei tuoi confronti, nei confronti di tutti gli amici!».
Poi ci sono le dichiarazioni di Cossidente, che si è autoaccusato assieme a Campanella – tra le altre cose – anche del duplice omicidio Gianfredi, ad aprile del 1997, e ha datato la conoscenza con l’ex vicegovernatore al 2002, quand’era soltanto consigliere regionale di opposizione eletto nelle file di Forza Italia. All’epoca il boss era appena uscito dal carcere per scadenza dei termini di custodia cautelare dopo il maxi-blitz della prima operazione contro la “quinta mafia”, quella partita a seguito della morte di un agente di polizia (Francesco Tammone) ucciso da uno dei suoi “sodali” calabresi durante un controllo finito male. Di lì a qualche mese Mancusi sarebbe stato rieletto, questa volta sotto le bandiere dell’Udc.
Difficile non cogliere la portata politica della sua sfida di allora: mollare gli amici del partito di Berlusconi dove si sentiva sacrificato per prendere le redini dei casiniani e rispondere soltanto a Roma. Una sfida tanto ambiziosa che in pochi avrebbero scommesso che alla fine ci sarebbe riuscito, invece è andata così e dopo aver conquistato la rielezione in consiglio regionale Mancusi ha guidato con successo i centristi sempre più verso sinistra, guadagnandosi l’ingresso nella giunta cinque anni più tardi, nel 2010, e persino la poltrona del vicepresidente.
Le dimissioni di Mancusi da assessore regionale sono arrivate a ottobre del 2012, subito dopo la convocazione dei suoi più stretti collaboratori e la notizia della sua iscrizione sul registro degli indagati pubblicata dal Quotidiano.

l.amato@luedi.it

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