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IL MESSAGGIO è del 17 ottobre scorso: quattro giorni dopo l’esplosione dello scandalo sull’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente con i carabinieri del Noe e del Reparto operativo che bussano di primo mattino alle porte dell’ex direttore generale Vincenzo Sigillito e del coordinatore regionale Bruno Bove per notificare a entrambi l’ordinanza di misure cautelari del gup di Potenza Michela Petrocelli. Le accuse sono pesanti: si parla di associazione a delinquere finalizzata alla truffa, disastro ambientale, falso in atto pubblico e omissione d’atti d’ufficio. Lo stesso giorno i militari raggiungono anche l’assessore alle attività produttive Erminio Restaino (in foto), amico e sponsor di Sigillito. Per lui c’è un avviso di garanzia che contiene l’invito a presentarsi con un avvocato davanti al pm che sta conducendo l’inchiesta, Salvatore Colella, per rispondere alle sue domande sui presunti raccomandati tra i nomi dei lavoratori interinali al lavoro all’interno dell’Agenzia. La verifica nella giunta regionale sarebbe iniziata formalmente un mese dopo, con l’assemblea regionale del Pd, ma la vera data d’inizio della crisi nella maggioranza è questa qui: lo scorso 13 ottobre. Quando è venuta alla luce una macchia nera che per anni avrebbe occultato i dati sull’inquinamento del termovalorizzatore Fenice di San Nicola di Melfi, mentre chi aveva il compito di controllare sembrava assorto soltanto a distribuire favori e a solidificare clientele sempre buone in tempi di campagna elettorale.
Questo è quello di cui le cronache si sono occupate in quel periodo portando alla luce gli elementi raccolti dagli investigatori in quasi due anni di lavoro. Quello che invece rivelava al Quotidiano della Basilicata una fonte all’apparenza molto bene informata è tutta un’altra storia fatta di insinuazioni pesantissime sulle amicizie e i presunti vizi dell’assessore Restaino, incluse le sue trasferte nelle isole dei Caraibi assieme ad altri personaggi inseriti nel “gotha” della pubblica amministrazione ma sempre con un piede nell’affare dello smaltimento dei rifiuti.
Il mittente del messaggio intitolato «Arpab, Restaino e sindaco» si sarebbe nascosto dietro un nome collettivo, «Dave U. Random», che è utilizzato da tempo dalla comunità di hacktivist di Anonymous, dietro la quale le polizie di tutto il mondo faticano ancora oggi a capire quante persone si muovono nell’ombra. “Hacktivist” sta per l’unione di due parole, o meglio di due pratiche: l’hacking e l’activism per indicare le pratiche dell’azione politica in stile hacker. In questo caso il bersaglio politico è facile da identificare, come il ricorso all’anonimato considerato il tenore diffamatorio delle affermazioni contenute nel messaggio.
Quello che è certo è che chiunque abbia inviato quella mail all’indirizzo del Quotidiano non parlava a caso, ma raccontava fatti e circostanze in maniera dettagliata citando nomi e luoghi, in modo quasi speculare rispetto a uno dei primi testimoni sentiti dai carabinieri che hanno condotto l’indagine, per cui si aspetta da un giorno all’altro la decisione del pm sui nomi di chi dovrà finire davanti al giudice dell’udienza preliminare. Prima che venissero a galla l’inquinamento della falda acquifera sotto il termovalorizzatore e i dati nascosti per anni nei cassetti dell’Agenzia per l’ambiente, la traccia seguita dagli investigatori era infatti molto diversa. Il sospetto, che poi si è dimostrato quasi del tutto infondato, era che all’interno degli uffici di viale del Basento entrassero e uscissero liberamente personaggi legati ad ambienti storici del crimine organizzato di Potenza. Il motivo di quella presenza si prestava alle peggiori interpretazioni, e di fatto agli atti dell’inchiesta risultano insinuazioni molto pesanti tradotte in ipotesi d’accusa abbandonate mano a mano che gli investigatori si addentravano in quello che succedeva davvero lì dentro. Anonymous sapeva tutto questo? Probabilmente sì. In che modo lo si può solo immaginare.

Leo Amato

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