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POTENZA – Il clan Cassotta avrebbe avuto in programma una serie di omicidi e tra questi anche quello di un uomo di Rapolla accusato di un furto avvenuto nei capannoni del patron del Melfi Calcio, Giuseppe Maglione.

Lo ha rivelato al pm Francesco Basentini e agli investigatori della Squadra mobile di Potenza l’ultimo pentito di “quelli del castello”, la cellula melfitana dei vecchi basilischi capeggiata dai fratelli Cassotta. Saverio Loconsolo ha iniziato a collaborare da luglio e gli inquirenti sono ancora a caccia di riscontri a molte delle sue dichiarazioni. Quelle sul presidente dell’A.s Melfi, invece, sono state depositate la scorsa settimana nel fascicolo dell’udienza preliminare che si sta svolgendo a Potenza nei confronti dei maggiorenti del clan, in cui Maglione figura come vittima di estorsione. Per lui il pizzo sarebbe consistito in 3mila euro in contanti consegnati a Giuseppe Cacalano (a sua volta collaboratore di giustizia da questa primavera) e l’assunzione della moglie del boss Marco Ugo Cassotta, e del fratelo della moglie di Massimo Cassotta, erede della guida del clan dopo l’omicidio del primo nell’estate del 2007.

Le «estorsioni consumate ai danni della ditta Maglione» sono sono uno degli argomenti su cui Saverio Loconsolo, 33 enne condannato di recente a 10 anni in appello per associazione mafiosa, ha dichiarato di voler parlare con gli inquirenti. Ma nel primo verbale redatto il 17 luglio a Roma il nome del presidente dei gialloverdi viene tirato in mezzo ai racconti dei delitti più efferati compiuti dal clan di cui Loconsolo è stato a lungo considerato un «colonnello» per la vicinanza al boss Marco Ugo. Così vicino che nel 2002, durante la preparazione dell’agguato al capo dello storico gruppo rivale, “Rocchino” Delli Gatti detto “Marosc”, il boss avrebbe deciso di non farlo partecipare. Di diverso avviso il fratello minore Massimo che invece gli avrebbe commissionato più di qualche omicidio.

«Dovevamo uccidere anche Pocchiari (altro presunto appartenente al clan Delli Gatti-Di Muro, ndr), un tale Pastore dello “lupo bianco” ma questi omicidi non vennero mai fatti». Questo le accuse di Loconsolo ai suoi ex compari davanti agli uomoni della Dda. «Massimo Cassotta ci incaricò di uccidere il Pastore perché era considerato responsabile del furto avvenuto ai capannoni di Maglione dove peraltro era impiegato come custode. Per fare l’omicidio rubamm un a Fiat Uno a Lavello con la quale ci portammo più volte a Rapolla per studiare i suoi movimenti».

Con lui ci sarebbe stato Michele Morelli, già condannato in appello a trent’anni di reclusione in primo grado per l’omicidio di Rocco Delli Gatti, più altri 30 in primo grado per quello di Domenico Petrilli, altro esponente del clan rivale, e assolto per mancanze di prove da quello di Bruno Cassotta, considerato il pegno da pagare per passare dalla parte dei vecchi nemici.

«Una sera ricordo – prosegue il verbale con le dichiarazioni di Loconsolo – ci recammo io e Morelli a Rapolla nei pressi del circolo gestito dal figlio di Pastore, già armati e pronti a colpire, ma non riuscimmo a farlo perché Pastore era accompagnato dalla moglie. Un’altra volta tornò a Rapolla Morelli in compagnia di Caggiano (Giuseppe, figlioccio di Massimo Cassotta, ndr) ma anche in questa circostanza il delitto non fu compiuto per la presenza della moglie».

Ricapitolando: la ditta dei fratelli Maglione avrebbe subìto un furto, e Massimo Cassotta avrebbe deciso di non farla passare liscia uccidendo il presunto responsabile. Ma perchè? Perché poi il “lupo bianco”? Tra gli omissis del verbale del 17 luglio non si capisce. Ma in quello del 24 settembre, giusto una settimana fa, a Benevento, Loconsolo ritorna sui rapporti col patron di Maglione srl, Maglione Automotive srl e As Melfi, l’unica compagine calcistica lucana rimasta in un campionato professionistico, che oggi contende la vetta della seconda divisione della Lega Pro al Vigor Lamezia.

«Quando ero in carcere mi venivano mandati dei soldi in piccole quantità e a volte Caggiano, per tramite di Giuseppe Maglione, pagava le rate della macchina di mia moglie». L’ex “colonnello” pentito del clan Cassotta, assolto tra l’altro anche dall’accusa di omicidio per la morte di Giancarlo Tetta, ad aprile del 2008 non sa spiegarsi il perché di tutto ciò. «Non so perché Giuseppe Maglione mi pagava le rate della macchina, ma sono a conoscenza che Maglione era sotto estorsione dei Cassotta: lo stesso lavoro dato alla moglie di Marco Ugo e di Massimo Aldo è frutto di estorisone. La moglie di Marco Ugo praticamente non andava mai a lavorare».

l.amato@luedi.it  

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