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A tu per tu con VITO PATERNOSTER, 
alla quarta generazione di produttori di LUCIA SERINO Tra tante macerie da raccontare cercavo una certezza. Un sinonimo di Basilicata che funziona, che cammina bene, senza intoppi. Scelgo la parola aglianico e cerco Vito Paternoster. Mi accorgo già a telefono che mi sono sbagliata. Almeno un po’. Immaginavo mirabilia, mi trovo a scrivere di affanni e sofferenze. E’ solo per la compostezza di linguaggio e il raccontare che trasuda storia (terza generazione con la quarta che è già entrata in azienda) del mio interlocutore che non mi scoraggio. Paternoster mi fa capire che molte cose non vanno. Chi ha orizzonti ampi e attraversa il mondo non è uno che si lamenta e basta. Capisco innanzitutto che il prodotto per eccellenza della nostra regione è difficile da vendere, crisi o non crisi, ma soprattutto che quel “fare rete”, “fare sistema” che orienta le strategie e molte visioni dell’economia, qui è stato già tentato e non ha funzionato. Vito Paternoster, il volto più noto della famiglia, mi dà la conferma anche di un altro punto, paradossale ma abbastanza intuitivo: il contributo finanziario pubblico determina spregiudicatezza e rischi. Chi investe in proprio controlla anche. Chi si avventura con i soldi degli altri, fa spesso danni. Davvero l’aglianico è difficile da vendere? «Sì, per ripetere un ordine in un ristorante di qualità si aspetta un giro di almeno 22 mesi. E c’è una difficile ricognizione del Vulture. Dov’è? Dove si trova? Qualcuno dice in Molise, altri in Calabria, si sa che siamo verso Sud, ma non esattamente dove. Ho partecipato a 36 Vinitaly e ancora spiego dove ci troviamo e che si dice Vulture e non Vultùre. C’è una difficoltà di comunicare il territorio,aggiungi che la parola aglianico è complicato da pronunciare e che poi vulture in inglese significa avvoltoio…Certo, al di là di tutto, bisogna ammettere che il nostro è un vino complesso, non è certo da wine bar, come un primitivo o un nero d’avola. Ecco perché c’è chi sta scegliendo un profilo più leggero, spuntano cantine come funghi, solo che così il mercato non capisce più di che si tratta, se c’è chi esce con un 2008 e chi con un 2010. A iniziare dalle guide che non si orientano più» La sua è la famiglia di produttori di aglianico più antica, i più nuovi magari sperimentano «Cosa significa sperimentare? Un aglianico per esprimersi al meglio deve attendere, se si usano sistemi per ammorbidire e il prezzo si abbassa, il prodotto è squalificato» Quanti siete i produttori di aglianico oggi in Basilciata? «Una quarantina, forse di più, ma non abbiamo una comunicazione uniforme» Esiste un consorzio «Ne fondammo uno che si chiamava Qui Vulture e aggregava dieci aziende, presidente Giuratrabocchetti delle Cantine del notaio. Ogni azienda aveva sborsato una quota di tasca propria. Poi è arrivato il Pif (progetto integrato di filiera, ndr) ci dicevano che eravamo troppo elitari e così sono entrati tutti dentro, con i finanziamenti pubblici. Non s’è capito più niente. C’è chi ha pensato di investire -e mi chiedo: veramente investire? – cifre enormi, il gioco diventava rischioso» Parla da tradizionalista, sarà il cognome che porta «Non sono un tradizionalista e basta. L’autenticità del vitigno non può essere mortificata con altri prodotti solo per creare tendenza. C’è una microzona d’eccellenza che almeno da 30/40 anni viene intercettata come tale ed è quella, ristretta, che sta sotto il vulcano. Oggi le bottiglie che portano l’etichetta dell’aglianico provengono da un territorio vastissimo. Bisogna creare sottozone, un disegno che in Piemonte ad esempio funziona benissimo. Avremmo, tra l’altro, anche dei nomi molto seduttivi per distinguere le zone, Macarico, Rotondo, Pian di carro. Per Venosa penso ad Orazio, invece oggi abbiamo un’unica area del Vulture, con prodotti differenti, con l’opzionalità della scelta tra docg e doc, una cosa pazzesca che non esiste da nessun’altra parte. Il prodotto doc è diventato docg ma è sconfinato, non è più la zona vulcanica d’origine» Cosa servirebbe? «Una politica del territorio, non si comunica solo con le guide, con gli articoli, le persone devono venire nel Vulture e non ci vengono. Tra l’altro abbiamo anche crisi di ristorazione di qualità. La locanda del palazzo è dei Feudi e non si è capito ancora bene cosa ne vogliono fare. Un tempo il castello di Melfi o i laghi di Monticchio erano frequentati. Bisogna che la gente venga qui, che si renda conto di quello che c’è. Non basta l’itinerario delle strade del vino, poi bisogna percorrerle. A trasmettere passioni ci pensiamo noi.» Qual è in questo momento il più competitivo concorrente dell’aglianico? «L’amarone, si vende tanto. E si vende il territorio dove si produce» Siete alla terza generazione «Alla quarta, ormai, mio nipote è già in azienda» Perchè non restaurate Villa Rotondo? «E’ un bell’investimento. Cerco uno chef di rango, lucano o non lucano, vorrei affidargliela». Passiamo parola 

Tra tante macerie da raccontare cercavo una certezza. Un sinonimo di Basilicata che funziona, che cammina bene, senza intoppi. Scelgo la parola aglianico e cerco Vito Paternoster. Mi accorgo già a telefono che mi sono sbagliata. Almeno un po’. Immaginavo mirabilia, mi trovo a scrivere di affanni e sofferenze. E’ solo per la compostezza di linguaggio e il raccontare che trasuda storia (terza generazione con la quarta che è già entrata in azienda) del mio interlocutore che non mi scoraggio. Paternoster mi fa capire che molte cose non vanno. Chi ha orizzonti ampi e attraversa il mondo non è uno che si lamenta e basta. Capisco innanzitutto che il prodotto per eccellenza della nostra regione è difficile da vendere, crisi o non crisi, ma soprattutto che quel “fare rete”, “fare sistema” che orienta le strategie e molte visioni dell’economia, qui è stato già tentato e non ha funzionato. Vito Paternoster, il volto più noto della famiglia, mi dà la conferma anche di un altro punto, paradossale ma abbastanza intuitivo: il contributo finanziario pubblico determina spregiudicatezza e rischi. Chi investe in proprio controlla anche. Chi si avventura con i soldi degli altri, fa spesso danni. 

 

Davvero l’aglianico è difficile da vendere? 

«Sì, per ripetere un ordine in un ristorante di qualità si aspetta un giro di almeno 22 mesi. E c’è una difficile ricognizione del Vulture. Dov’è? Dove si trova? Qualcuno dice in Molise, altri in Calabria, si sa che siamo verso Sud, ma non esattamente dove. Ho partecipato a 36 Vinitaly e ancora spiego dove ci troviamo e che si dice Vulture e non Vultùre. C’è una difficoltà di comunicare il territorio,aggiungi che la parola aglianico è complicato da pronunciare e che poi vulture in inglese significa avvoltoio…Certo, al di là di tutto, bisogna ammettere che il nostro è un vino complesso, non è certo da wine bar, come un primitivo o un nero d’avola. Ecco perché c’è chi sta scegliendo un profilo più leggero, spuntano cantine come funghi, solo che così il mercato non capisce più di che si tratta, se c’è chi esce con un 2008 e chi con un 2010. A iniziare dalle guide che non si orientano più» 

La sua è la famiglia di produttori di aglianico più antica, i più nuovi magari sperimentano 

«Cosa significa sperimentare? Un aglianico per esprimersi al meglio deve attendere, se si usano sistemi per ammorbidire e il prezzo si abbassa, il prodotto è squalificato» 

Quanti siete i produttori di aglianico oggi in Basilicata? 

«Una quarantina, forse di più, ma non abbiamo una comunicazione uniforme» 

Esiste un consorzio 

«Ne fondammo uno che si chiamava Qui Vulture e aggregava dieci aziende, presidente Giuratrabocchetti delle Cantine del notaio. Ogni azienda aveva sborsato una quota di tasca propria. Poi è arrivato il Pif (progetto integrato di filiera, ndr) ci dicevano che eravamo troppo elitari e così sono entrati tutti dentro, con i finanziamenti pubblici. Non s’è capito più niente. C’è chi ha pensato di investire -e mi chiedo: veramente investire? – cifre enormi, il gioco diventava rischioso» 

Parla da tradizionalista, sarà il cognome che porta 

«Non sono un tradizionalista e basta. L’autenticità del vitigno non può essere mortificata con altri prodotti solo per creare tendenza. C’è una microzona d’eccellenza che almeno da 30/40 anni viene intercettata come tale ed è quella, ristretta, che sta sotto il vulcano. Oggi le bottiglie che portano l’etichetta dell’aglianico provengono da un territorio vastissimo. Bisogna creare sottozone, un disegno che in Piemonte ad esempio funziona benissimo. Avremmo, tra l’altro, anche dei nomi molto seduttivi per distinguere le zone, Macarico, Rotondo, Pian di carro. Per Venosa penso ad Orazio, invece oggi abbiamo un’unica area del Vulture, con prodotti differenti, con l’opzionalità della scelta tra docg e doc, una cosa pazzesca che non esiste da nessun’altra parte. Il prodotto doc è diventato docg ma è sconfinato, non è più la zona vulcanica d’origine» 

Cosa servirebbe? 

«Una politica del territorio, non si comunica solo con le guide, con gli articoli, le persone devono venire nel Vulture e non ci vengono. Tra l’altro abbiamo anche crisi di ristorazione di qualità. La locanda del palazzo è dei Feudi e non si è capito ancora bene cosa ne vogliono fare. Un tempo il castello di Melfi o i laghi di Monticchio erano frequentati. Bisogna che la gente venga qui, che si renda conto di quello che c’è. Non basta l’itinerario delle strade del vino, poi bisogna percorrerle. A trasmettere passioni ci pensiamo noi.» 

Qual è in questo momento il più competitivo concorrente dell’aglianico? 

«L’amarone, si vende tanto. E si vende il territorio dove si produce» Siete alla terza generazione «Alla quarta, ormai, mio nipote è già in azienda» 

Perchè non restaurate Villa Rotondo? 

«E’ un bell’investimento. Cerco uno chef di rango, lucano o non lucano, vorrei affidargliela». 

Passiamo parola 

 

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