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EGREGIO direttore
con la presente, in anticipo rispetto alla naturale scadenza del mio contratto, rassegno nelle Sue mani le mie dimissioni da Direttore della Unità operativa complessa di Cardiochirurgia dell’Ospedale regionale San Carlo con decorrenza, nel rispetto delle norme vigenti, dal 01 luglio 2015, o, se lei vorrà autorizzarmi vista la mia attuale situazione lavorativa, dal giorno 18 maggio 2015 in deroga al previsto preavviso di 3 mesi.
Concludo, non senza sofferenza ma con la serenità di chi ha la coscienza pulita, questa esperienza iniziata nell’entusiasmo, nella voglia di fare e pregna di grandi progetti concordati con la direzione strategica dell’epoca e finita come tutti stiamo vedendo, non per quello che il battage mediatico ed i sommari processi di piazza hanno portato all’attenzione di tutti, faccenda che peraltro è tutta da chiarire in sede giudiziaria, ma, oltre che per l’ormai acquisita convinzione che nel reparto di Cardiochirurgia del San Carlo manca la tranquillità necessaria per poter affrontare quotidianamente compiti difficili e rischiosi, anche, e soprattutto, per effetto della sospensione da lei e dalla azienda da lei diretta irrogata nei miei confronti credo in maniera eccessiva, ingiusta e forse condizionata dal clamore mediatico della vicenda che ad essa ha condotto. Come lei credo, essendo medico prima di tutto, possa capire la mia afferenza a questa azienda è resa oramai improponibile oltre che dalla privazione della retribuzione, soprattutto, dall’essere messo in condizione, dopo circa trent’anni di dignitosa e proficua attività, di non poter esercitare la mia attività di chirurgo, cosa che di fatto rappresenta già di per sé una condanna ancor prima di quella, eventuale, dell autorità giudiziaria. Con la sospensione sono stato privato di fatto della possibilità di poter fare ciò a cui io e chi mi sta intorno abbiamo dedicato anni di sacrifici e di impegno, benchè ancora innocente agli occhi della legge che mi conferisce il diritto di essere ritenuto tale fino all’ultimo grado di giudizio e di una intera regione che ben ha capito che qualcosa di non chiaro si agita intorno a questa triste storia così come già in passato per altre storie che hanno coinvolto la cardiochirurgia potentina.
Vorrei ringraziare in primis tutto il personale paramedico dell’unità operativa complessa da me finora diretta, nessuno escluso, per l’affetto, il sostegno e la loro alta professionalità, quei colleghi del dipartimento Alta specialità del cuore che con me hanno creduto nel progetto di una cardiochirurgia al servizio dei pazienti e non di chi ci lavora, tutti coloro (colleghi, amministrativi, personale di supporto, ecc) che in me hanno creduto e fatto sentire il loro supporto ed il loro affetto nei mesi scorsi, quei, pochi, colleghi cardiochirurghi che con la loro professionalità, la loro devozione alla nostra disciplina e il senso del sacrificio, senza chiedere nulla in cambio hanno contribuito al raggiungimento di traguardi importanti. Un grazie sentito a Giampiero Maruggi, ad Antonio Pedota ed a Bruno Mandarino per aver creduto nel mio progetto, per avermi sostenuto ed incoraggiato e per aver, probabilmente, dovuto pagare qualcosa per questo; grazie per aver tenuto la schiena dritta!
Nel mio primo anno qui al San Carlo, grazie anche allo sforzo di alcuni, ripeto pochi, valorosi colleghi cardiochirurghi e della direzione strategica, abbiamo ottenuto risultati che andavano al di là delle mie più ottimistiche previsioni (incremento di circa il 35% del numero degli interventi, riduzione ed iniziale inversione della migrazione extraregionale, mortalità operatoria quasi dimezzata, bilancio in attivo di circa un milione e quattrocentomila euro per la prima volta dopo tanti anni di passivo, ecc.) ma che non hanno potuto condurci, per fatti estranei alla mia, alla nostra volontà, lì dove io avrei voluto, alla modernizzazione di una mentalità per molti aspetti arroccata su vecchie convinzioni e sulla difesa di presunti diritti acquisiti, alla creazione di una scuola di cardiochirurgia come primo passo ed al raggiungimento, poi, di una completa ed efficace autonomia clinica e chirurgica di colleghi più giovani e più motivati di quello che ormai noi anziani siamo o saremmo stati quando loro sarebbero stati pronti.
Vado via amareggiato con la sensazione che la mia terra non mi abbia voluto, non abbia creduto in me fino in fondo, e mi abbia sacrificato ad interessi superiori, non abbia creduto in me che dopo pochi mesi al San Carlo ho affiancato l’innato senso di appartenenza a questa terra, al popolo dei cafoni, dei briganti, a un senso di appartenenza a questa azienda così grande che non ho visto in colleghi che qui ci lavorano da tempo immemore e che hanno percorso i corridoi di questo ospedale, ad onta del camice che indossano, al solo scopo di registrare audio, prendere appunti e fare della maldicenza un’arte, tutto al solo scopo di prepararsi per “abbattere” l’ennesimo primario. Ho esibito, in nome di quel senso di appartenenza, con grande orgoglio la cravatta col logo del San Carlo, donatami alla firma del mio contratto dall’ – all’epoca – dg Maruggi, in ogni occasione ufficiale e congressuale sia in Italia che all estero.
Spero che le prossime strategie aziendali e, concedetemelo, anche un po’ il mio sacrificio possano consentire a chi mi seguirà, a lui il mio in bocca al lupo, di raggiungere quei traguardi che possano dare serenità non solo a chi opera in questa azienda ma anche e soprattutto al meraviglioso popolo lucano affinchè possa usufruire senza dubbio alcuno delle elevate professionalità che albergano in questo ospedale.
Lascio Potenza nella speranza di poter tornare al più presto a lavorare, a fare il mestiere più bello del mondo, a riprendere altrove il mio posto in sala operatoria, vicino ai miei malati con lo stesso entusiasmo e la stessa serenità con cui l’ho sempre fatto portando, nonostante tutto, questa esperienza e tanta gente di questo ospedale nel cuore, portando ancora con me, oltre il ricordo della cattiveria che mi ha aggredito, la gioia e la speranza di aver dato qualcosa di buono alla gente che nei corridoi, nelle stanze del mio reparto, sentivo parlare il mio stesso dialetto. Grazie a tutti.

 

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