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Roma, 10 mag. (askanews) – La Catalogna va al voto domenica dopo una campagna elettorale in cui l’attenzione è stata centrata su Madrid: al di là degli equilibri interni della regione, il verdetto principale riguarderà gli effetti che queste elezioni avranno sulla governabilità della Spagna – ovvero, se i socialisti di Pedro Sanchez finiranno per uscirne rafforzati, magari con un governatore in più.

Le minacciate dimissioni del premier hanno avuto una ricaduta favorevole nei sondaggi, con il Psoe che nelle ultime rilevazioni ha staccato ulteriormente la destra del Pp: e non pochi analisti hanno visto proprio nelle elezioni catalane il motivo principale dell’appello alla mobilitazione emotiva dell’elettorato progressista – al momento l’unico effetto pratico della mossa di Sanchez, che non ha dato luogo a nessuna iniziativa di tipo legislativo.

Il Psc – peraltro già protagonista del “miracolo” sanchista alle ultime politiche – è in effetti dato favorito dai sondaggi, e potrebbe ripetere il successo delle scorse regionali: a guidarlo è un fedelissimo di Sanchez, l’ex ministro della Sanità Salvador Illa, al quale è stato affidato il ruolo di “pompiere” che spenga – o quanto meno sopisca – l’incendio dell’indipendentismo. Se poi riuscirà o meno a farsi eleggere presidente della Generalitat, resta però tutto da vedere.

IL REBUS DELLE ALLEANZE

Come anche nei Paesi Baschi, gli assi destra-sinistra e indipendentismo-unionismo non coincidono: sondaggi alla mano, le possibilità principali di ottenere i 68 seggi necessari per la maggioranza assoluta sono due. La prima è un governo delle sinistre, che unirebbe Psc, gli indipendentisti di Erc e altre formazioni minori; una convivenza non facile ma che di fatto riproduce quella attualmente in corso a Madrid, con la differenza che il cambio della guardia alla Generalitat fra socialisti ed Esquerra diminuirebbe il potere negoziale di questi ultimi e confermerebbe la bontà della strategia di Sanchez. Unico neo: il Psoe non avrebbe più scuse per non mantenere la promesse in materia di finanziamenti e infrastrutture.

La seconda possibilità è la riedizione di un governo indipendentista, alternativa più difficile visti i numeri, ma con una differenza fondamentale rispetto all’esecutivo uscente: a guidarlo non sarebbe più Erc ma i conservatori di Junts – ovvero Carles Puigdemont, cui si spalancherebbero le porte di un clamoroso ritorno sulla scena con tutte le incognite politiche e legali del caso. Se infatti Erc ha sostanzialmente accettato che il sostegno sociale all’indipendenza continua, ma il clima politico non è quello adatto e dunque meglio seguire la strada negoziale, Puigdemont ha assunto un atteggiamento più bellicoso e la sua presenza alla Generalitat significherebbe per Sanchez una navigazione agitata per il resto della legislatura e un’incognita nei rapporti fra Barcellona e Madrid.

Per questo stesso motivo, una terza ipotetica possibilità – una coalizione Psc-Junts per cui vi sarebbero i numeri – appare del tutto improbabile.

LA GOVERNABILITÀ A MADRID

Sanchez non teme di perdere la guida dell’esecutivo: la sfiducia costruttiva gli garantisce la possibilità di governare in minoranza qualunque cosa accada – né gli alleati hanno alcun interesse a provocare la fine della legislatura, specie con la legge di amnistia ancora in ballo. Ma il suo obbiettivo è appunto rafforzare la maggioranza eterogenea che lo sostiene, il che passa appunto per il mantenimento dello status quo: conferma socialista, tenuta dell’indipendentismo negoziale e ridimensionamento di quello oggi meno incline ai compromessi (Erc e Junts, in una sostanziale inversione delle rispettive posizioni storiche).

L’alternativa è una maggioranza meno solida, un percorso più accidentato e la tentazione di fare ricorso alle elezioni anticipate, con l’incognita del risultato: il miracolo dello scorso anno potrebbe anche non ripetersi. La scommessa di Sanchez quindi è quella di vedere Illa alla guida della Generalitat, e magari incassare l’annunciato ritiro di Puigdemont dalla politica in caso di mancata vittoria, che renderebbe il dossier dell’amnistia un po’ meno urgente.

L’ELETTORATO

Al di là dei calcoli dei partiti – che hanno tutti lanciato un appello al “voto utile” per ottimizzare i rapporti di forza con i possibili alleati – rimane il fatto che gli indecisi, a pochi giorni dal voto, sono ancora il 40% degli elettori. Un dato che in parte è destinato a tradursi in astensione, nel quadro di una generale fase di stanca dopo i fuochi d’artificio seguiti al 2017: visto che l’indipendenza per ora non è praticabile, si ritorna a un business as usual che non è particolarmente attrattivo.

Un’altra parte dei voti però dovrà dirimere alcune questioni: ad esempio, l’ingresso o meno nel Parlamento regionale di Aliança Catalana, inedita formazione di un’ultradestra indipendentista che gioca sulla sicurezza e l’immigrazione come la controparte unionista di Vox, a cui spera di rubare qualche voto non “españolista”. AC è vicinissima alla soglia di sbarramento del 3% e se effettivamente entrasse i suoi seggi potrebbero essere decisivi per un governo indipendentista, sebbene sia Erc che Junts – quest’ultimo non senza qualche esitazione – si siano impegnati a non allearsi in modo diretto né indiretto.

A destra, il destino di Ciutatans appare segnato e dovrebbe rimanere sotto il 3%, a tutto vantaggio del Pp e di Vox: i sondaggi danno il primo ancora in netto vantaggio, ma non si esclude la possibilità di un sorpasso interno che creerebbe qualche difficoltà al leader conservatore, Albero Nuñez Feijoó, e alla sua politica di moderazione – che nei fatti non si distingue granché da quella di Vox, e anzi un cattivo risultato potrebbe spingerlo su posizioni ancor più intransigenti: un problema non tanto per i rispettivi elettorati, indistinguibili, ma per l’effetto di mobilitazione della sinistra.

Le urne si apriranno domenica alle 8 per chiudersi alle 20: alla stessa ora sono previsti gli exit poll, mentre i primi risultati ufficiali si avranno dalle 21.

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