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TITO – Finirà per essere l’ennesima storia in cui, oltre alla ai danni della cattiva industrializzazione, pagheremo anche il prezzo della beffa. Prendi una fabbrica chiusa, la possibilità di fare un pò di quattrini con finanziamenti pubblici e un imprenditore che arriva da fuori: il pasticcio è fatto. Quando poi si arriva addirittura a far sparire i soldi che spettavano ai lavoratori disoccupati allora ce n’è abbastanza per rivolgersi alla Procura. E’ quanto hanno gli ex dipendenti di Daramic che ora tentano l’ultima carta: fermare Step one con le vie legali e chiedere indietro quanto spetta loro. La denuncia è già pronta. Ieri, giornata di festa, gli uffici erano tutti chiusi. Ma i dipendenti, che non vogliono perdere altro tempo, hanno già messo tutto nero su bianco e questa mattina formalizzeranno l’esposto. La decisione è maturata dopo che la Step one – l’azienda nata dall’acquisizione da parte di Tre dello stabilimento di Tito Scalo – in un incontro che si è svolto mercoledì sera in Confindustria ha chiuso tutte le porte: la società non ha alcuna intenzione di pagare la totalità degli incentivi spettanti ai dipendenti della ex Daramic, così come previsto dall’accordo siglato nel 2008, quando la multinazionale americana a cui faceva capo la fabbrica di Tito decideva di chiudere lo stabilimento lucano. Nei giorni precedenti l’azienda si era detta disponibile a pagare solo il 70 per cento della somma spettante loro. E, comunque, non prima di aver ricevuto l’ultima tranche di pagamento da parte di Daramic che, al momento della cessione, assicurava a Step one un trasferimento di complessivi 15 milioni di euro. Con questi soldi l’azienda avrebbe dovuto far fronte ai costi della bonifica, della gestione dello stabilimento per la reindustrializzazione e al pagamento degli incentivi ai lavoratori. Una sorta di deposito. A cui attingere al momento dell’interruzione del rapporto di lavoro. Ed è qui che viene il bello. Perché quando gli operai – in vista della prossima scadenza della cassa integrazione in proroga, non più rinnovabile – hanno chiesto le somme spettanti, l’azienda ha risposto che quei soldi non ci sono più. Sono stati spesi. Chissà come. Non certo per il legittimo pagamento degli operai, già disperati per l’improvvisa perdita del lavoro. Dopo aver approfittato della disponibilità di cassa, Step one chiede ora di rinunciare al 30 per cento degli incentivi previsti. Una condizione inaccettabile, non solo perché quei soldi spettavano agli ex operai, ma anche perché, rispetto alle buone intenzioni dell’azienda, non c’è più fiducia. Ecco perché, dopo la fumata nera dello scorso mercoledì in Confindustria, gli operai hanno deciso di presentare l’esposto con cui chiedono di bloccare l’ultimo trasferimento di Daramic a Step one: un pagamento di più di 5 milioni di euro. Se Step one, fino a ora, senza avviare nessuna attività produttiva, ha speso i dieci milioni di euro, e tra questi anche la quota destinata ai lavoratori, perché fidarsi ora? Anche perché sembra che nel frattempo l’azienda abbia maturato diversi debiti con alcuni fornitori. Il sospetto è dunque che nel caso in cui Step one incassasse l’ultima tranche di trasferimenti da parte di Daramic, sparirebbe per sempre senza restituire nemmeno un centesimo ai dipendenti. Ma ora che il coperchio sul caso Step è stato sollevato è legittimo porsi un altro dubbio: se l’azienda ha speso i soldi spettanti ai lavoratori, chi assicura che quelli destinati alla bonifica siano stati realmente utilizzati a questo scopo. Il che avrebbe delle conseguenze gravissime per tutto il territorio. Del resto erano state proprio le problematiche ambientali a spingere la multinazionale americana a cui fa capo Daramic – che non era di certo in crisi finanziaria – a lasciare il territorio lucano. La stessa azienda qualche anno prima si era autodenunciata per aver sversato quantità mostruose nel terreno e nella falda acquifera di trielina. La stessa Daramic successivamente si era impegnata in un piano di bonifica milionario e complesso che avrebbe dovuto ripristinare le condizioni ambientali iniziali. Di lì a poco sarebbe andata via, affidando la prosecuzione delle attività di bonifica all’azienda ad essa subentrata, ovvero la Step one. Questi gli impegni: Daramic paga sette milioni di euro, Step one si impegna a portare avanti il progetto. Un passaggio che sarebbe stato pure credibile se Step one avesse dato prova di avere intenzioni serie. Del resto il suo biglietto da visita non è certo dei migliori, con lo strano gioco societario che vede il suo amministratore delegato essere anche l’Ad di Sistema, ovvero l’unica società che si è candidata al progetto di reindustrializzazione del sito produttivo. Un progetto agevolato dalla regione per metà dell’investimento, che per di più non è mai partito. Alla luce delle novità emerse nell’ultimo mese a danno dei lavoratori c’è poco da sperare: Step One e Sistema sembrano essere solo gli ultimi di una lunga lista di imprenditori mal intenzionati. Del resto da più di trent’anni la storia dell’industrializzazione lucana sembra ripetersi rispettando sempre lo stesso copione. Quel che è certo è che, a Tito Scalo, la bonifica è ferma ormai già da dieci giorni.

Mariateresa Labanca

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