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Il ministro Daniele Franco e il premier Mario Draghi

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La costruzione della governance resta il nodo ancora irrisolto nella complessa tessitura del Recovery Fund. Non a caso si parla della possibilità di spacchettare il provvedimento attraverso due decreti. Il primo relativo alle strutture tecniche e alla trasparenza da approvare in tempi piuttosto rapidi. L’altro più avanti nel mese maggio quando la trattativa con i partiti sarà definita. Il punto controverso riguarda la composizione della cabina di regia collocata a Palazzo Chigi che eserciterà la supervisione politica del piano.

A parte i ministri tecnici, i partiti di maggioranza chiedono una presenza, almeno a rotazione, anche dei “loro” ministri in base ai temi che verranno via via esaminati. Viceversa il potere di esecuzione e controllo faranno capo al ministero dell’Economia cui spetterà anche il compito di tenere i i rapporti con Bruxelles lungo tutto il periodo 2021-2026. Anche quando a portarlo avanti saranno i governi che prenderanno il posto del governo Draghi. Intanto però, si continua a ragionare, perché anche in questo rush finale di pochi giorni il cantiere del Pnrr è ancora aperto.

Le informazioni non circolano, ma dalle poche fonti ministeriali che se occupano traspare il nervosismo per una trattativa che tarda a concludersi. Già il doppio livello scelto dall’Italia appare eccentrica. La Francia, per esempio, ha scelto una strada completamente diversa accentrando tutte le competenze al ministero dell’Economia. La moltiplicazione dei ruoli adottata dall’Italia dovrà essere spiegata. Ma anche così trovare la quadratura appare compito titanico.

Negli ambienti della maggioranza si discute molto. È forte il pressing dei ministri per partecipare a più tavoli possibili, dire la propria, lasciare un segno sul Pnrr. Cercano il cambiamento dello schema per poter incidere sulla valutazione dei progetti. Ma soprattutto, si sta dando un forte accento alle riforme “mirate”, come sottolineato dal sottosegretario agli Affari europei, Vincenzo Amendola. Il nodo di quello che potremmo definire il negoziato tra Draghi e la politica infatti è proprio questo. Draghi è arrivato a Palazzo Chigi per chiudere il Recovery Plan, e lo ha fatto affidando il lavoro al suo cerchio ristretto di ministri tecnici, scelti da lui, che rispondono a lui e sono indipendenti dai partiti, lasciando poco spazio a tutti gli altri. In altri paesi lo sviluppo del piano di rilancio è stato vissuto in maniera più aperta, con un dibattito parlamentare, in alcuni casi (come in Portogallo) molto allargato.

Una volta che il documento sarà stato inviato a Bruxelles, il negoziato sarà un affare tra Roma e Bruxelles, tra i ministri di Draghi e i funzionari europei. Ai partiti molte cose non piaceranno, ma non ci sarà molto tempo per discuterle. Dopo il 26 e il 27 aprile resteranno solo tre giorni prima della consegna, non ci saranno modifiche da concordare con il parlamento. Ecco perché l’Italia rispetterà la scadenza anche inviando alla Commissione un Recovery Plan con alcuni punti ancora da discutere.

Approvati a maggio con due decreti legge. Se la riforma del fisco, insistentemente chiesta da Bruxelles, sarà agganciata alla prossima legge di Bilancio, quella della pubblica amministrazione sarà, dunque, la prima ad entrare in vigore. D’altra parte senza una struttura burocratica efficiente e digitalizzata i progetti previsti dal Pnrr rischiano di non andare molto lontano.

La riforma è stata impostata proprio guardando alla realizzazione del piano: nuove regole per le assunzioni, snellimento delle procedure, rafforzamento delle competenze dei dipendenti, digitalizzazione. Su questa parte sta lavorando il ministro per la Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, mentre la parte sulla semplificazione normativa è gestita dal pool di Palazzo Chigi coordinato dal consigliere di Draghi Marco D’Alberti. Stesso discorso per il capitolo sulla concorrenza (qui verranno recepite molte delle indicazioni dell’Antitrust), mentre la ministra Marta Cartabia lavora sulla riforma della giustizia con l’obiettivo di accelerare i processi agendo in particolare sul funzionamento degli uffici.

Il rapporto del 160% debito/Pil raggiunto quest’anno dall’Italia è uguale a quello che nel 2015 portò la Grecia vicino al default. La differenza è che in Italia il debito è sostenibile, ma per renderlo tale è necessario crescere, e mantenere basso il suo livello di finanziamento – ora è possibile grazie alle politiche straordinarie della Bce. In altre parole, le cose sono proprio come le ha descritte Draghi: l’Italia deve ridurre il debito con la crescita, e avviare il rapporto debito/Pil verso un percorso di graduale discesa.

Come osservato anche dalla Corte dei conti, se la sfida implicita nel Def è quella di finanziare gli incrementi di spesa attraverso una maggiore crescita, si dovrà fare il possibile, non appena le condizioni lo consentiranno, per affiancare all’espansione della spesa buona anche il contenimento di quella cattiva, altrimenti, il famoso «debito buono» sarà sopraffatto da quello cattivo.

Certamente il Recovery Plan rappresenta un’opportunità unica per effettuare investimenti che aumentino il potenziale di crescita del Paese; ma per raggiungere tale obiettivo sarà necessario non rinviare ancora una volta la stagione delle riforme da tempo sollecitate dagli osservatori internazionali. Riforme, quelle riforme di cui si parla da decenni, ma che dividono e non portano consenso. Dopo la presentazione del Pnrr ci saranno molte cose da chiarire tra chi governa, chi sostiene il governo, e chi governerà domani.


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