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NELLA città dei corvi e delle lettere anonime, nella città dei silenzi prolungati, dei veleni e delle ritorsioni, si consuma l’ultimo lutto delle responsabilità. Questa storicaccia del San Carlo ha spostato l’attenzione dal fatto principale, il caso di una donna deceduta sul quale sta indagando la magistratura per omicidio colposo. Purtroppo non è l’unico caso, anche se le denunce per omicidio colposo in tutti gli ospedali italiani somigliano sempre di più a quelle per diffamazione a danno dei giornalisti o alle denunce fatte ai maestri per abuso di funzione. Il ricorso facile alla lite giudiziaria lascia la prova di impegno in pasto alla diserzione utilitaristica. Chi si cimenta più? Meglio un parto spontaneo o è più sicuro un cesareo? Ma questa è una digressione, torniamo alla nostra storia.

Per mesi, anni, abbiamo raccontato il lento decadere di un reparto, la cardiochirugia, nata come polo di eccellenza grazie a un bisturi che quell’eccellenza portò, Filippo Tesler, convinto da Emilio Colombo a venire a Potenza. I conflitti tipici di un reparto della sanità pubblica sono qui lievitati per la tipologia delle professionalità in campo (il cardiochirurgo è per eccellenza una primadonna) e per quello sgomitamento dovuto a un sistema di lobby politico-sanitarie per cui ogni nomina di vertice sembrava dover essere gradita a questa o quella corrente. Sicchè si ha la sensazione che abbiano passato più tempo a costruire aspirazioni che a dedicarsi ad altro. Generalizzo, ma non troppo. La storia della cardiochirurgia potentina è anche una storia di fughe, da ultimo Sergio Caparrotti, il quale, lasciato il San Carlo, passa di alloro in alloro: è stato nominato responsabile della clinica cardiologica di Mercogliano, in provincia di Avellino e ha lasciato Bari. “Mi piace mettermi in gioco”, dice. Possono farlo tutti? La lettera di addio scritta da Caparrotti è rimasta a futura memoria dell’invivibilità di quel reparto.

Un reparto che nel frattempo finiva nel vortice di un’inchiesta giudiziaria e poi di procedimenti disciplinari, vertenze di lavoro, fiumi di lettere, interrogazioni e interpellanze regionali, audizioni, insomma un inferno, con le difficoltà aggiunte di denunce sull’organizzazione del lavoro che lasciava fuori a turno questo o quel medico scatenando rabbia, delusione e ritorsione. Se c’è una cosa che forse il dg Maruggi avrebbe dovuto fare più coraggiosamente è la denuncia pubblica di quello che stava succedendo. Ha nominato dei “saggi” per monitorare la situazione, è arrivato un primario che ha bruciato le aspettative di altri, hanno fatto il pugno duro, sono rimasti dentro la rete dei giudici del lavoro. Mentre i ricoveri diminuivano. Questo è il nocciolo, attorno al quale hanno costruito la storiaccia del video rubato consegnato a un sito web. Qui entrano in ballo le regole della nostra professione. Tra le quali, fondamentale, la tutela delle fonti. Non tutti riescono a farlo, rischiando di far diventare l’impegno macchietta quando il contorno supera il fatto, che diventa metanotizia. Tra i provvedimenti disciplinari di Maruggi c’è anche quello a carico del medico che ha effettuato la registrazione clandestina e l’ha veicolata. Qual era il suo reale interesse? Rendere un servizio pubblico o sputtanare? C’era un altro modo, più coraggioso, per raccontare, mettendoci la faccia, quello di cui era a conoscenza? La cosa è servita ai più serve per veicolare l’attacco politico. Come un Carontie dell’opportunismo. Ma non tutti ci stanno.  “Io sono primario per regolare concorso”, tiene a dire, ad esempio, il dottor Romeo, primario di ortopedia. “Sono apolitico, mai stato sponsorizzato da nessuno”. Certo, non può non lasciare indifferenti che a indagare sul caso della signora defunta sia quello stesso magistrato, (indicata in un articolo poi rimosso) che indaga anche sulla simulazione di reato per i sospetti falsi attentati al sito che ha messo in circolazione il video della registrazione furtiva. Un epilogo dolente, una fine senza gloria. Per l’ospedale, per la nostra professione.

l.serino@luedi.it

 

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