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“TANTO tuonò, che piovve!” Il successo di Giorgia Meloni e del centro-destra a trazione Fratelli d’Italia era così atteso ed era stato così anticipato, che quello del 25 settembre 2022 è apparso quasi come un voto di conferma. È forse per questa ragione che le reazioni dei media esteri, anche di quelli che hanno mostrato più preoccupazione, non sono state così eclatanti. Oltre Atlantico, ma anche Oltralpe, non sono mancati i toni preoccupati. I media statunitensi in particolare hanno insistito sulle radici di Giorgia Meloni, ancorate nel “ventennio”.

Anche in Francia si è gridato all’arrivo dell’estrema destra nelle stanze del potere. In Spagna e Regno Unito i toni sono parsi meno allarmistici, anche se a dominare pare comunque lo scetticismo. Se si volessero categorizzare le reazioni dei media esteri si potrebbero individuare tre assi. Le radici post-fasciste; le potenziali difficoltà se non lacerazioni della coalizione, a partire dalle differenze nel rapporto con la Russia di Putin; la complicata collocazione europea della stessa coalizione.

Se dai media si passa alle reazioni istituzionali, a dominare è la cautela. È evidente che per non infrangere i canoni delle relazioni diplomatiche, molte reazioni sono parse piatte e quasi di circostanza. La voce che dal Cremlino parla di “benvenuto a qualsiasi forza in grado di mostrarsi più costruttiva nei rapporti con la Russia” era quasi scontata. Gli Usa hanno fatto intervenire il Segretario di Stato e Blinken si è detto “ansioso di lavorare con il nuovo governo”. Solo in apparenza di circostanza è il richiamo di Scholz alla “continuità a livello europeo” che ci si attende dal nostro Paese. E “la cooperazione costruttiva” alla quale fa riferimento il comunicato ufficiale della Commissione, va interpretata e suona come auspicio se non come una minaccia velata quanto indiretta, con riferimento agli scarsi margini di manovra del prossimo esecutivo, che dovrebbe mantenersi nel solco segnato dall’ultimo governo Draghi.

Proprio il richiamo all’oramai ex presidente del Consiglio permette di fare la prima considerazione in relazione alle attese e ai timori che si respirano in particolare nel contesto europeo. Può apparire paradossale, ma a pesare è molto più la partenza di Draghi, piuttosto che la vittoria larga di Meloni. Ad impensierire Bruxelles è lo scenario di un’Ue senza una leadership forte, senza un baricentro che era stato trovato nell’Italia di Draghi. Una leadership capace, in grado di dettare la linea su tutti i principali dossier: dalla razionalizzazione della questione dei vaccini alla fermezza sulle sanzioni alla Russia e sugli aiuti all’Ucraina, passando per le proposte concrete sul tema dell’energia, con particolare attenzione alla diversificazione degli approvvigionamenti. Insomma, per il momento il timore è sicuramente quello del vuoto, piuttosto che quello su chi lo andrà a colmare. E qui si può innestare la seconda considerazione. Le istituzioni comunitarie e le principali cancellerie (in particolare Berlino e Parigi) sono ancora memori di ciò che accadde nel 2018. L’accoppiata Lega/Cinque Stelle allora in versione “populismo anti-sistema” prima di tutto anti-Ue aveva senza dubbio segnato un punto di non ritorno. Peggio era difficile fare e il successo di Meloni non è stato comunque paragonato all’infausto 2018. Come hanno ricordato gli osservatori più attenti a Bruxelles, la convinzione è che vi saranno “turbolenze, ma non un terremoto”.

L’impressione è che si temano l’inesperienza e un po’ di populismo legato al qualunquismo dominante nel Paese, ma che allo stesso tempo si scommetta su ragionevolezza e pragmatismo di Meloni. In fondo, al netto delle polemiche da campagna elettorale, il calcolo è che alla giovane leader di Fratelli d’Italia convenga confermare la linea filo-Ucraina sul tema guerra, proporre piccoli accorgimenti ma non stravolgere il PNRR (e qui da Bruxelles potrebbero anche assecondare, a patto che si tratti più di “cosmesi” che di un improbabile rinegoziato) e infine andarci cauta sui conti pubblici, considerato il livello di deficit e i fondamentali economici del sistema Paese. Sono ugualmente date per scontate, quasi nell’ottica di “danni collaterali” che possono essere assorbiti, le quasi certe turbolenze su migranti e rifugiati, sui temi di società e su qualche presa di posizione relativa al nazionalismo economico (sarà difficile non concedere qualcosa a slogan tipo “Prima l’Italia” e “difendere i campioni nazionali”). Affinché le turbolenze rimangano tali e non si raggiunga la soglia dell’allerta vera e propria, saranno determinanti le scelte dei profili da collocare nei due dicasteri chiave: Economia e Finanze e Affari Esteri (dando naturalmente per scontato che l’incarico di formare il governo vada alla leader di Fratelli d’Italia).

Con una scelta attenta e in continuità con l’esecutivo Draghi in queste due cruciali caselle, la “navigazione europea” del prossimo governo potrebbe anche non essere così perigliosa. Vi sono altre due brevi considerazioni, lasciate un po’ in ombra dalle molte analisi tutte concentrate sulla figura di Giorgia Meloni. Da un lato pochissimi commenti esteri si sono soffermati sull’allarmante dato dell’astensionismo. Il 63,91% di affluenza è il punto più basso dell’Italia repubblicana ed elemento forse ancor più grave si tratta di una discesa verso gli Inferi dell’astensionismo iniziata esattamente trent’anni fa, con il voto del 1992. Sono andati in fumo nei trent’anni passati oltre il 23% della partecipazione: dall’87% all’attuale imbarazzante 63,9% (il dato nazionale diventa addirittura disastroso se declinato in alcuni contesti regionali quali la Campania, la Sicilia e la Calabria dove si è astenuto circa un italiano su due).

Il livello di apatia, rassegnazione e protesta silenziosa è in costante aumento e tale “normalizzazione” dell’astensionismo anche nel contesto italiano non può che suonare come un ulteriore campanello d’allarme per la tradizione liberal-democratica in quanto tale. La seconda considerazione si può introdurre sommando, in maniera forse spericolata da un punto di vista della scienza politica, i suffragi raccolti da Fratelli d’Italia, quelli della Lega di Salvini e quelli del Movimento Cinque Stelle. Più di un italiano su due ha optato per un voto di protesta o comunque di netta censura rispetto alle scelte che per circa un anno mezzo il governo Draghi aveva effettuato e che sembravano condivise da una larga maggioranza, considerato il livello altissimo di sostegno che i sondaggi d’opinione attribuivano all’oramai ex Presidente del Consiglio.

Come spiegare questa vera e propria sclerotizzazione dell’opinione pubblica? Quale interpretazione dare a questa logica di continua sanzione nei confronti delle forze che hanno avuto incarichi di governo, per sostenere un’alternativa che in pochi mesi si prepara ad essere poi screditata? Basti pensare che dal 1994 ad oggi nessuna coalizione è stata confermata dopo una fase di governo del Paese. In definitiva in attesa delle prime mosse di Giorgia Meloni e di scoprire se sarà in grado di esercitare la leadership all’interno del suo schieramento, prima che a livello continentale, l’Italia torna ad essere “l’osservata speciale” dell’Ue. C’è da sperare che la giovane leader si renda conto delle aperture di credito che, seppur tra le righe, Bruxelles sta inviando. Parte del suo realismo potrà giocarselo anche utilizzando, strumentalmente, questa volontà europea di non vedere Roma scivolare tra le braccia in realtà ben poco accoglienti di Budapest (per non parlare di quelle di Mosca).

Roma non può perdere Bruxelles. Ma quasi specularmente Bruxelles non può giocarsi Roma. Al netto degli slogan, la speranza è che la realtpolitik possa trionfare.


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