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Boris Belenkin

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Intervista al Premio Nobel Boris Belenkin presente all’UniCal per divulgare in due lezioni magistrali l’impegno di “Memorial”

RENDE – Nel premio Nobel per la pace a Memorial c’è un po’ di Calabria, anche perché all’UniCal insegna un ex dirigente dell’ong russa, il professor Marco Clementi, docente di Storia delle relazioni internazionali. Su sua proposta UniCal ha finanziato due pubblicazioni di Memorial, in lingua russa, in occasione del decennale dell’attività.

Ma il legame si rinsalda perché Boris Belenkin, uno dei maggiori esponenti di Memorial – è direttore della biblioteca dalla sua fondazione, nel 1990 – oggi e domani 2 e 3 maggio 2023, terrà lezioni sulla Russia di Putin e sulla storia della ong. Oggi Belenkin vive esule, con la moglie, nella Repubblica Ceka, sotto la protezione del governo di Praga, mentre Memorial è stata chiusa d’autorità dalla magistratura russa nel giorno in cui l’Accademia norvegese ha reso noti i vincitori del Nobel. Ma continua a lavorare intensamente.

Curatore di varie mostre sul dissenso, autore di monografie su attivisti politici della Rivoluzione e della Guerra Civile e di numerosi articoli scientifici sulla destalinizzazione e sulla storia dell’opposizione, il suo obiettivo è divulgare all’estero l’attività di Memorial. Anche in Calabria. Ma c’è anche un allarme che lancia. Perché si corre il rischio che, dopo la guerra, in Russia possano svilupparsi forme di «criminalità totalizzante».

Lei terrà, nelle giornate immediatamente successive al Primo Maggio, due lezioni all’UniCal, che ha finanziato pubblicazioni di Memorial, quindi è come se l’ateneo cosentino fosse sgradito al regime di Putin che ha dichiarato Memorial “agente straniero”. Che significato assume, alla luce di tutto questo, il suo Primo Maggio in Calabria?
«Conosco da tempo l’attività e l’orientamento dell’UniCal grazie al professor Clementi. Quest’università ha sempre avuto la mia simpatia e sono contento di poter intervenire e tenere queste due lezioni perché per la prima volta posso parlare a un uditorio diverso, fatto da studenti che saranno sicuramente in grado di comprendere quello che dirò loro su Memorial. Voglio capire da loro quali siano i loro sentimenti. Voglio aggiungere che proprio per quello che accade in Russia e Ucraina per noi è fondamentale che più persone possibili conoscano i fatti e l’attività di Memorial».

Che significato ha il Nobel per Memorial, giunto proprio quando la sua esistenza in Russia stava per essere spazzata via, e che incidenza ha in questo particolare momento storico?
«Quando siamo stati insigniti del Premio Nobel, erano trascorsi 35 anni di attività della nostra organizzazione. Trentacinque anni è metà della vita di una persona. Pensavamo che i primi 35 anni fossero una data importante per tirare le somme della nostra attività, ma al nostro posto lo ha fatto il Comitato del Premio Nobel, pensando a noi. Il significato è quello di un riconoscimento per l’attività svolta a livello nazionale e internazionale per tutto questo tempo, sia dal punto di vista della ricerca storica per come la intende Memorial, una ricerca che fa luce cioè su aspetti sconosciuti della storia del nostro Paese, ma che nello stesso tempo è un’attività in difesa dei diritti della persona. Riteniamo sia stato molto importante il fatto di essere stati premiati insieme a un’organizzazione ucraina. Il Premio Nobel non è una garanzia di protezione della nostra attività all’interno della federazione russa ma ci ha dato una visibilità all’estero che prima non avevamo».

Lo scrittore russo Shishkin ha osservato che cent’anni fa gli immigrati russi a Parigi o Berlino non si vergognavano di parlare nella loro lingua. Oggi invece si vergognano per le atrocità commesse dai propri compatrioti in Ucraina. Enrico Franceschini ha scritto che a Londra oggi il russo sta diventando la lingua della vergogna. Il russo, secondo lei, sta diventando la lingua della vergogna come lo era per i tedeschi che si vergognavano per l’Olocausto commesso dai propri padri o nonni?
«Comprendo bene quello che ha espresso Shishkin ma credo che una frase del genere debba essere valutata con attenzione da ogni russo che si trovi in questa situazione. Però effettivamente questa riflessione è abbastanza condivisa dalla maggior parte delle persone russe che nell’ultimo anno hanno lasciato il Paese. Quando ti trovi in circoli di migranti o casualmente incontri gruppi di fuoriusciti dall’Ucraina, questa frase di Shishkin ha un significato ancora più forte».

L’uccisione e il ferimento di giornalisti nell’Ucraina devastata dalla guerra rappresenta l’ultimo di una serie di attentati all’informazione e alla libertà di stampa. Sono 30 i giornalisti finora uccisi durante il conflitto. In Ucraina sono stati costretti a chiudere 113 organi di stampa per le minacce russe, secondo quanto denuncia l’ong Institute of Mass Information. Il teatro di guerra è diventato un luogo in cui è sempre più difficile muoversi per raccontare pezzi di verità. Il lavoro degli inviati è un po’ simile a quello fatto da Memorial, fonte autorevole di informazioni. Che prospettive ha il racconto di questo conflitto se l’informazione è sotto attacco?
«I russi fanno quello che fanno anche in Russia, ogni commento è superfluo su quanto accaduto. Il fatto stesso che la guerra sia oggi abbastanza estesa rende difficile conoscere in tempo reale quello che accade, non per la cattiva volontà da parte di chi scrive. È normale che questo accada e che il racconto giornalistico proponga verità parziali. Finita la guerra, quando si dovrà capire cosa è effettivamente successo, e quali crimini sono stati commessi, tra le varie indagini di ricerca quella giornalistica sarà tra le più importanti».

Il presidente russo Vladimir Putin ha firmato la legge che prevede di introdurre il carcere a vita come possibile pena per il reato di alto tradimento, finora punito in Russia con la reclusione fino a 20 anni. Il provvedimento è stato approvato nei giorni scorsi dal Parlamento. C’è il rischio che tutta una serie di attività svolte da organizzazioni internazionali e dai difensori dei diritti umani in subiscano ulteriori restrizioni?
«Questo è un esempio di come il sistema di governo di tipo staliniano si stia ripresentando. Uno dei tratti caratteristici è la repressione. Putin ama molto la storia del nostro Paese e si ispira ai metodi di governo adottati nei periodi più bui. Da un punto di vista del diritto, le leggi che ha firmato sono un’assurdità. Il passo successivo sarà quello di disporre che gli agenti stranieri vengano squartati nella pubblica piazza come accadeva nel Medioevo. Penso abbia firmato queste leggi per far capire al mondo verso quale direzione si muove, si tratta di un chiaro segnale al mondo».

Dopo la guerra, le cosche avranno più armi? Le mafie, e in particolare la ‘ndrangheta, stanno già sfruttando la crisi, secondo l’allarme lanciato, per esempio, dallo storico Antonio Nicaso e dal magistrato Nicola Gratteri.
«Sono d’accordo sui timori che hanno espresso, condivido pienamente questa preoccupazione. Alla fine della guerra, ma anche in questo momento c’è la possibilità, potrebbe svilupparsi un mercato nero delle armi ma c’è anche il rischio che gruppi di banditi che si stanno formando potrebbero collocarsi all’interno di organizzazioni criminali. Non so quanto questo tema sia attuale per l’Europa ma per la Russia sarà uno dei temi principali da qui a poco. Addirittura ho paura possano sorgere forme di criminalità totalizzante in Russia. Quando c’è un passaggio di epoca, come accadde in Giappone alla fine della seconda guerra mondiale o in Russia alla fine degli anni Novanta, il potere politico non è così forte e a quel punto i gruppi criminali hanno maggiore spazio, da quella che era un’infiltrazione sommersa esplodono, in parte si sostituiscono al potere dello Stato che declina. In Russia c’è la possibilità che ciò accada».

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