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Luca Ward durante il suo spettacolo

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SECONDO molti, Luca Ward è il miglior doppiatore italiano. Sicuramente tra i più riconoscibili, vista la sua presenza in sceneggiati di grandi successo come “Cento vetrine” o “Elisa di Rivombrosa” e per le ospitate in tv che sono molto frequenti. E ogni volta parte il solito refrain: al mio segnale scatenate l’inferno, Ezechiele 25,17, non può piovere per sempre e via citando. Ma Luca Ward è l’esempio tipico che incarna il motto dei doppiatori di una volta: non basta avere una bella voce, e magari sapere pure come usarla. Bisogna essere attori. Attori veri. E lui passa dal leggìo al cinema, dalla televisione al teatro senza farsi mancare nemmeno il musical.

Qualche tempo fa ha scritto una sua biografia pubblicata da Sperling & Kupfer: “Il talento di essere nessuno”. Un libro sulla sua vita dal quale è nato uno spettacolo teatrale (dal titolo “Il talento di essere tutti e nessuno”) che farà tappa a Cosenza il prossimo 23 giugno. L’appuntamento è alle 21,30 al Castello Svevo, la regia è di Luca Vecchi, l’organizzazione è di Exit.

Abbiamo detto bene? Questo spettacolo nasce dal libro?

«In parte sì. Ad un certo punto però lo spettacolo vira e va in un’altra direzione. Racconto storie, aneddoti, c’è una parte iniziale più introspettiva a cui segue una fase più scherzosa, divertente. A me piace eliminare la quarta parete, il pubblico ad un certo punto sale sul palco, giochiamo insieme».

Il suo rapporto col teatro com’è?

«È sempre stato dissacratore. Non mi piace l’idea che ci sia un muro a dividere gli attori dal pubblico. Il teatro è un rito che si celebra insieme. E poi dietro all’artista c’è sempre l’uomo: il padre, il figlio, il fratello, il marito, la vita comune di tutti quanti noi».

Una vita da artisti.

«Macchè. Sono sempre stato convinto che quello dell’attore sia un mestiere come gli altri. Un mestiere qualunque. Lei fa il giornalista, io l’attore».

È più facile raccontarsi da un palcoscenico o scrivendo un libro?

«Il libro è stato più facile. Quando me l’hanno proposto pensavo a uno scherzo, dalla casa editrice mi hanno chiamato dopo aver visto una mia intervista in tv e mi hanno detto: sai che la tua vita sembra un film? Perché non ne facciamo un libro? All’inizio ero dubbioso, poi mi convinsi».

E lo spettacolo?

«Anche qui, non ero convinto, ai miei produttori ho detto sempre di no, pensavo non potesse interessare a nessuno. E invece sta andando molto bene. Ed è più difficile perché ti racconti, ti metti a nudo e il confronto col pubblico è immediato. Fermo restando che scrivere un libro non è che sia proprio una passeggiata, eh».

Nel suo libro racconta di quando lei, figlio di attori e orfano di padre da ragazzo, mentre si trovava in un bar e lavorava da camionista venne visto da Pino Locchi che le chiese: ma che ci fai qui, vieni con me in sala doppiaggio. E la sua vita svoltò. Lei quanti talenti ha scoperto?

«Tantissimi. E ne vado orgoglioso. Fino a quando ho fatto la direzione del doppiaggio ne ho porti tanti al leggìo e tanti hanno fatto una bellissima carriera. I grandi del doppiaggio italiano, come Pino Locchi, evidentemente mi hanno anche insegnato a come riconoscere il talento».

La famosa scuola di doppiatori italiana che, si dice, è la migliore al mondo.

«Macchè, non è più così. Ormai sono bravi dappertutto. Certo, noi abbiamo una tradizione più lunga ma è troppo cambiato il sistema. Quello del doppiatore resta un mestiere artigianale, e invece oggi viene fatto a ritmi industriali».

E non va bene.

«Certo che no. Ripeto, abbiamo un’esperienza molto forte ma questo non ci mette al riparo da scivoloni. Sento doppiaggi che sono appena tradotti, appena letti, non interpretati. Manca l’attore dietro al microfono. Si doppia a una velocità esagerata. Ai miei tempi, i giovani potevano stare in sala doppiaggio, si doppiava tutti insieme e allora sì che un giovane aveva la possibilità di imparare. Oggi invece, a quelli della mia generazione nessun giovane ci vede mai al lavoro. Al massimo buongiorno e buonasera nei corridoi».

E al leggìo, in questo periodo, cosa sta doppiando?

«Russel Crowe che parla con accento russo e Hugh Grant che fa il nanetto. Sono belle sfide».

Luca Ward e la Calabria. Cosa le viene in mente?

«Ho tanti ricordi, ci vengo spesso, mi piace il suo del vostro dialetto. E il mio media manager, Stefano Vespertini, è di Cosenza (in realtà è di Catanzaro, ndc)».

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