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di FRANCO CRISPINI
Fino a che quella parte della Sinistra più inquieta, più tentata dai disegni assoluti, dall’immaginazione progettuale, dalle fiammate di una intelligenza
filosofica che sa scrutare nelle pieghe più riposte della realtà umana, continuerà a sperdersi nella sua alterata fantasia sociologica, a scorrere in
mille rivoli, a frantumarsi in mille letture interpretative dei processi sociali, fino ad allora, nel vuoto di una idea unitaria, riformista e socialista, è una necessità politica dare credito e fiducia al Partito Democratico; è una scelta ancora di sinistra incoraggiarlo a sviluppare tutte le sue potenzialità innovative ed a sbarazzarsi di schematismi culturali ed ideologici che non danno identità ma comprimono le capacità di misurare tutto quanto di nuovo va producendosi nella società. Si consideri quello che sta avvenendo nel Paese: si è aperto con la fondazione del Pdl un grandissimo spazio per farvi entrare tutti gli italiani, per assieparvi ed omogeneizzare ogni genere di interessi e di bisogni, sotto l’unico segno di modernizzare la conservazione, di dare più funzionalità alla immodificabilità sociale, facendo per contro avvertire l’esigenza che l’Italia è un Paese che va rinnovato per più profili. Scossa in questo modo, la gente avverte ogni giorno di più che tante delle cose nuove che vorrebbe, pur nella loro vaghezza, sono in gran parte quelle di cui si fa interprete, con i suoi annunci, un “partito personale” che allarga sempre di più la sfera delle sue iniziative fatte abilmente assorbire come salvifiche e liberatrici. Se non ci spostiamo da questo quadro in cui c’è come in uno specchio un rimando di due illusioni contrapposte, quella di un progetto della novità irreale e totale che ridimensiona ed abbatte tutti i piccoli traguardi cui le
gente guarda e che l’astuzia berlusconiana trasferisce nel suo disegno di rispetto della volontà popolare, e quella che un attacco aggressivo, come col dipietrismo, smuova la gente, pietrificata dall’istrionismo autoritario di un leader al limite del “ducismo”, dallo stato in cui è gettata portandola alla ribellione ed al rifiuto, aspettandosene poi soprattutto il consenso elettorale. Di mezzo, presa come tra due fuochi, vi è la via di una paziente, lenta, difficile
azione di recuperare valori che si sperdono, di produrre consapevolezze, di ricreare una gerarchia di valori stravolta dall’ondata populistica che gonfia il
vecchio partito del “predellino” ora Pdl: è la strada lungo la quale cerca di muoversi appunto il Pd che tra l’altro vive continuamente un conflitto interno tra il carattere seducente del progetto politico, avvertito largamente, i limiti degli apparati e le incrostazioni culturali di tanta parte del suo ceto dirigente.
Il Pd da quando è nato è stato sempre incalzato da prove elettorali, non ha avuto respiro necessario per mostrarsi definito : il veltronismo è stata una ottima
spinta magica ed illusionistica, ma per affrontare un partito immaginifico, che sa produrre stravolgenti effetti emozionali, sa stimolare reazioni simpatetiche negli italiani, sa creare illusioni vicine alle allucinazioni, non si sa davvero cosa occorresse, anche se un 33% del Paese ha saputo reagire e bene. Vi sono state altre prove ma il Pd le ha perse non solo per le sue colpe ma perché vi è
stato e vi è un ciclo continuo, così lo chiameremo, degli “effetti Berlusconi”
alimentati continuamente (e si può credere che lo show del premier nel G20 di Londra con quella fotografia con Obama, Medvedev, Hu Jindao, rimarrà senza “effetti” positivi su quanti possono votare Pdl?) anche dalle stesse gag del Cavaliere. Veltroni non ha saputo generare “effetti” e nemmeno altre sue introduzioni a nuovi scritti di Obama potrebbero valere quanto le “monellerie” (giullaresche o meno) del Cavaliere negli incontri internazionali: gli danno il modo di lamentarsi di una stampa che lo beffeggia, ma soprattutto lo convincono (attraverso i sondaggi) che quei suoi vezzi piacciono e gli procurano nuovi consensi. Di “effetti Franceschini” per ora è meglio non parlarne. Sarebbe il caso, visto come vanno le cose, che il Pd non ritenga che l’onda lunga dei successi berlusconiani possa arrestarsi di colpo e che la tornata elettorale del 6-7 giugno porti grosse novità. Siccome è pensabile che, proprio perché senza
ferme sponde ideologiche, la grossa area berlusconiana rastrellerà altre copiose adesioni, per il Pd non c’è tregua: dovrà né rendersi berlusconiano né mettere
catene di ferro ai suoi principi, dovrà saper comunicare valori, sgretolare un muro di devastanti illusioni sociali, aiutare a ricostituire le difese naturali del sistema democratico.
Forse anche questa tornata elettorale, sia pur limitatamente, potrà dare un segnale di inizio di accreditamento del Pd quale unico punto di appoggio di un progetto politico riformista. Insomma, il Pd non deve rassegnarsi, soprattutto non deve sentirsi alla estrema unzione. Oltretutto, assieme allo svuotamento e spezzettamento dell’area della sinistra radicale, è da credere ed anche da augurarsi che non si abbia un depauperamento della parte meno disarticolata e più consistente di tutta la Sinistra, quella appunto del Pd.

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