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di LUIGI M. LOMBARDI SATRIANI
Domenica scorsa, Pasqua di Resurrezione, numerosi centri calabresi – Arena, Filogaso, Maierato, Vibo Valentia, Briatico, comune capoluogo del mio paese San Costantino, e tanti altri – si è svolto il rito dell’Affruntata o della Cunfrunta. Protagonisti della rituale la Madonna, Cristo Risorto e san Giovanni, rappresentati da statue che i fedeli muovono processionalmente per le vie del paese. La Madonna, chiusa nel suo nero dolore, è posta in una traversa rispetto alla strada principale. Altri fedeli accompagnano il Cristo Risorto. San Giovanni, alla vista del Cristo, va di corsa dall’Addolorata per comunicarle la Resurrezione, ma la Madre non crede al lieto annuncio. San Giovanni Ritorna perciò dal Cristo per raggiungere una seconda volta la Madonna ancora però senza essere creduto. La terza volta la Madonna inizia a credergli e si muove in maniera sempre più rapida verso il Figlio, che ugualmente di corsa le si avvicina. Nel momento in cui le due statue si incontrano, alla Madonna cade il manto nero e resta avvolta da un manto celeste: la Mater dolorosa ha ceduto il posto alla Mater gloriosa: le tre statue proseguono quindi l’iter processionale nell’esultanza pasquale. In qualche altro centro calabrese, a esempio a Dasà, il rito si svolge il martedì successivo e gli abitanti Ricavano da esso auspici di buon augurio o nefasti, nel caso qualcosa tratto non vada per il giusto verso. Si tratta della “messa in scena” della dialettica vita-morte, che viene affrontata e trascesa, in nome appunto del Cristo Risorto, che ha consentito all’umanità la liberazione dal peccato, morte dell’anima.
Gigantesca teatralizzazione della speranza, di una vita vincitrice di una morte, della sconfitta di un dolore assorbito dalla felicità, di una esistenza più serena e pietosa. Le comunità grazie al rito dell’Affruntata possono ripetere rassicurate: incipit vita nova. Spero con tutto il cuore che tale inizio di vita nuova sia possibile al più presto per i martoriati centri abruzzesi colpiti nei giorni scorsi da un terremoto apportatore di distruzione di vite, case, edifici pubblici, attrezzature, relazioni che tramano la vita associata rendendola dotata di senso e di tepore.
Puntuale come dopo ogni sisma, è scoppiato il dibattito sul sito dove sia più opportuno ricostruire gli insediamenti. Le diverse posizioni si fronteggiano accampando ognuna le proprie ragioni. Nelle settimane successive a ogni terremoto è stata avanzata, sempre per ragioni di sicurezza, di opportunità, la tesi secondo la quale occorreva ricostruire altrove. A poco valgono per i sostenitori di questa tesi le considerazioni di quanti sottolineano che un centro, grande o piccolo che sia, non è soltanto insieme di edifici e di strade, ma è, essenzialmente, trama di ricordi, fonte di memoria, di identità, senso di appartenenza, spazio umanato da paure, da speranze, da progetti, da sogni.
Non è questione marginale quella del dove ricostruire, essa investe radicalmente l’orizzonte di vivibilità, l’esistenza stessa dei centri rinnovati, necessariamente fulcro di domesticità, ovvero di trascendimento della chiusa datità del fluire meccanico dei giorni. È un’antica questione, si è detto. Così fu per il dibattito nei mesi successivi al terremoto del 28 dicembre 1908, che rase al suolo quasi interamente le città di Reggio Calabria e di Messina. Per questa città si discusse a lungo se fosse opportuno o meno ricostruire l’università e al dibattito partecipò pure Gaetano Salvemini, che insegnava in quegli anni nell’ateneo messinese e che perse nel terremoto i suoi familiari.
Così fu per il terremoto del Belice (1968), quando si scelse la ricostruzione in altro sito – Gibellina e così via – che però, per quanto impreziosito da opere d’arte e da iniziative instancabilmente promosse dal sindaco del tempo, Ludovico Corrao, non riuscì ad aggregare effettivamente la vita comunitaria.
Così fu per il terremoto dell’Irpinia (1980), per cui molti intellettuali progressisti e doverosamente innovatori si produssero sui giornali in interventi che reclamavano la sparizione, in nome appunto del progresso, dei paesi presepi.
In quell’occasione anche io intervenni nel dibattito sottolineando ironicamente l’indifendibilità degli “scialli neri” di fronte ai “terremoti perfetti”.
Il 31 ottobre 2002 la comunità molisana di San Giuliano di Puglia fu devastata da un terremoto nel quale, fra l’altro, per il crollo della scuola persero la vita 27 piccoli alunni con la maestra. In quell’occasione, il presidente del Consiglio del tempo Silvio Berlusconi, forte della sua immagine di costruttore di città, pensando evidentemente alla sua Milano 2, promise per il paese di far costruire piste ciclabili. Anche in Abruzzo, Berlusconi (al quale va riconosciuto il merito di avere impresso alle operazioni di soccorso un’innegabile efficienza e di una ripetuta presenza nei luoghi del disastro) non è riuscito a trattenersi dal lanciare l’idea di costruire una new town L’Aquila in tempi rapidi per dare una casa agli sfollati.
Berlusconi pensa evidentemente alla già ricordata e per lui redditizia Milano 2, alle new town, alle città satelliti. Al suo efficientismo decisionista e autoreferenziale sfugge il fatto che le banlieue francesi sono diventate, da sogno di città giardino, sobborghi in fiamme, spazi per la rivolta di giovani ed emarginati (la “teppaglia” cara alla terminologia di Sarkozy), e considera irrilevante la contrarietà degli addetti ai lavori, quali l’architetto Fucksas, l’urbanista Gregotti, psicologi, sociologi, antropologi, rei ai suoi occhi anzitutto di essere intellettuali – e magari “comunisti” – sempre pronti a parlare male dell’Italia, cioè di lui stesso. Tant’è. Questo è l’uomo, avviato ormai inarrestabilmente a un processo di deificazione. E si tratta di un io (o d-io) destinato a durare a lungo.

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