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di FRANCO CIMINO
“Meno male che Silvio c’è”. È lo slogan utilizzato dai fan, elettori e impatizzanti, del leader del Pdl. Oggi, giorno del trentunesimo anniversario della barbara uccisione di Aldo Moro mi viene da coniarne un altro, di slogan: “Quanto ci manca!”. E sì, con tutto il rispetto per l’attuale presidente del Consiglio e per i suoi ammiratori, Aldo Moro ci manca.
Manca al Paese, manca alla politica. Manca all’Europa. Perché e cosa c’entra il confronto con il Cavaliere di Arcore? L’Italia è cambiata e di anni, come un fiume in piena sotto il ponte, ne sono passati trenta.
Berlusconi e la politica italiana, come tutti gli altri leader che gli somigliano, sono il prodotto del più grande cambiamento realizzatosi nell’Italia del dopoguerra, affermano con impressionante continuità molti analisti sociali e altrettanti osservatori.
È proprio così? Probabilmente no, o almeno non nella misura esposta. Il nostro Paese è cambiato non per una forte spinta ideale -come è avvenuto con la Resistenza, o per effetto di una profonda frattura sociale, come il sessantotto lasciava presagire. È cambiato sulla scia di una estesa crisi morale e politica, che la classe dirigente non ha saputo affrontare fino a farla diventare questione democratica.
Mani pulite, la cancellazione per via giudiziaria di partiti e governanti, non è stata “la rivoluzione”. E gli uomini che l’hanno gestita non sono stati né Garibaldi, né Terracini.
E neppure l’anonima “banda armata” resistenziale che dalle montagne scendeva, rischiando la vita, per cacciare lo straniero assassino, nel lontano ’43.
È stata l’anomalia, fortunosa per chi ha potuto scavare dentro una montagna da tempo già franosa. Il sistema è caduto senza trovare al suo interno una forza rigeneratrice che lo salvasse dal suo male nascosto: la rottura del filo sottile che tiene insieme politica e morale. La corruzione che ha infestato gran parte della classe dirigente (non solo politica) è stata solo un fenomeno, il più allarmante, del processo degenerativo che ha aggredito il sistema dei valori su cui è sorto lo Stato democratico. La “rivoluzione senza rivoluzionari” nata nel ’94 non ha saputo sostituire un modello in crisi con uno migliore o uguale all’originale.
L’ha utilizzato utilizzando gran parte del personale politico-economico in esso formatosi, ma non l’ha modificato nella sua parte divenuta fragile, anche per il fisiologico processo di invecchiamento dei sistemi politici. Ha guardato solo ai meccanismi del sistema e ha puntato sulla struttura economica, cioè sull’ossatura della società, immaginando che la ricchezza di un paese si misurasse su conti economici e sui conti in banca, e non anche sulla cultura e sulla formazione di una sempre più robusta coscienza democratica.
Ritenendo che la crisi politica fosse crisi degli strumenti decisionali e non crisi della rappresentanza, si è fatto nascere una cultura decisionista, che progressivamente ha trasformato la figura del leader da quella di un capo da cui discendono le sorti e la felicità dei cittadini.
Il rapporto sempre più diretto tra capo e popolo ha ridimensionato il ruolo del Parlamento e modificato la stessa essenza della democrazia. Con ciò costituendo nel Paese una sorta di strisciante “monarchia” sotto la pelle della quale cammina silenziosamente un autoritarismo paternalistico e bonario. L’affermarsi, sulle rovine dei regimi comunisti, del capitalismo in tutto il mondo ha favorito l’emergere di un nuovo materialismo che giorno dopo giorno ha travolto la ragione più profonda dell’economia liberale. Questa si fonda sulla stretta unione tra capitano e lavoro, tra prodotto umanizzato e profitto, tra competizione e innovazione, tra interesse privato e bene collettivo.
Fine ultimo e punto di partenza di questo rapporto è la felicità dell’uomo attraverso la realizzazione di sé e la soddisfazione dei suoi bisogni fondamentali. Tra i quali spicca quello del lavoro inteso quale frutto della creatività individuale e quale mezzo dell’evoluzione della persona, centro e motore del divenire della società.
La ricerca, invece, di una felicità effimera attraverso il raggiungimento di mete erronee, tutte fondate sulla esposizione e mercificazione del proprio corpo e sulla costruzione di una bellezza puramente esteriore, rappresenta la chiave di lettura di una società senza anima. Che abbassa lo sguardo dinanzi al futuro per guardare all’utile e alla pratica attuazione dell’oggi.
L’oggi, come quotidianità del vivere e ansia di consumare tutto e subito dentro una società dei consumi in cui l’uomo è oggetto e prodotto stesso del mercato. Aldo Moro, che prima di ogni altro aveva intuito i rischi che avrebbe corso la nostra società èammonito la classe dirigente dei primi anni settanta a non distrarsi dinnanzi a essi piuttosto cercando di trovare le ragioni di un profondo cambiamento, se fosse vissuto più a lungo avrebbe, con il coraggio del suo filosofare ardito, evitato che il paese aggiungesse l’attuale condizione.
E se fosse qui oggi avrebbe operato per garantire al sistema politico italiano una nuova sintesi fra completezza della rappresentanza politica e più forte capacità di governo, tra pluralismo delle opzioni e governabilità, e avrebbe garantito che la leadership del paese non concepisse come estraneo il parlamento, la sede alta della sovranità del popolo e della mediazione nobile tra interessi e fini, tra risorse della società e ricchezza individuale, tra la concretezza del governare e l’utopia, cui ogni società deve tendere per guardare oltre il proprio stesso limite.
Ma Aldo Moro, purtroppo, non c’è. Resta, però la sua grande intramontabile lezione. Basterebbe che ce la si ripassasse un po’, e questa ubriacatura della della democrazia si scioglierebbe in una notte. Di inquieto riposo. Di fiduciosa attesa.

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