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MARCO LETTIERI* e PAOLO RAIMONDI **
Il 23 febbraio scorso il New York Times pubblicava un editoriale con un titolo molto diretto “Why can’t Cerberus foot the bill?” (Perché Cerberus non paga il conto?) in cui invitava i padroni della Crysler e della General Motors, in primis
il fondo di investimento Cerberus, a mettere sul tavolo i soldi necessari a salvare le due fabbriche automobilistiche, senza elemosinare ulteriori aiuti dello
stato e della collettività. Cerberus Capital Mangement è uno dei più agguerriti e spregiudicati equity fund, specializzato nel “metodo spezzatino”, cioè quello di acquisire il controllo di un’impresa, eventualmente in difficoltà, spolparla, prendere il filetto e lasciare pelle e ossa (e debiti) agli altri, in particolare
allo Stato. Non ha potuto portare a termine questo programma in quanto la crisi globale ha drammaticamente cambiato le carte in tavola.
In aprile 2007 Cerberus aveva preso il 51% della Gmac, la fortezza finanziaria della Gm con un portafoglio crediti al consumo (auto) pari a 1.400 miliardi di dollari e un anno dopo aveva acquistato l’80% della Chrysler. Cerberus, nome
appropriato che si riferisce al mostro canino a tre teste che fa da guardiano all’inferno ricordato nella “Divina Commedia”, è anche un colosso internazionale
immobiliare e dei mutui sub prime, delle ipoteche e dei crediti facili e quindi è stato un attore primario nella crisi finanziaria globale. Lo scorso dicembre nel mezzo della bancarotta, il governo americano aveva dato 13 miliardi di dollari alla Gm e 4,3 alla Chrysler, poi a febbraio, dopo drastici tagli nell’occupazione e nella produzione e un inevitabile aggravamento della crisi finanziaria, Gm e Chrysler avevano chiesto rispettivamente altri 17 e 5,3 miliardi di dollari in aiuti.
A quel punto il New York Times aveva sfidato Cerberus a venire allo scoperto. Come si sa la dimensione dell’intreccio è complicata dal fatto che Gm, che è in procinto di chiedere il Chapter 11, cioè di dichiarare bancarotta, controlla la tedesca Opel, anch’essa alla vigilia di una “amministrazione fiduciaria temporanea” da parte del governo di Berlino. Abbiamo riportato questi fatti perché prima di procedere con il petto gonfio di un certo “orgoglio nazionale” a buon prezzo, è doveroso farsi questa domanda: quale è l’accordo finanziario vero
sottostante la possibile acquisizione della Chrysler da parte della Fiat e la joint venture con la Opel? Fino ad ora si sono sentite solo garanzie verbali secondo cui l’acquisizione non costerà niente, anzi la Fiat ci guadagnerebbe in mercato e in riduzione di costi di scala. In una situazione in cui tutti chiedono aiuti e piangono perdite e miseria, sorge qualche sospetto quando si pretende che
la crisi all’improvviso crei delle opportunità che farebbero bene a tutti!
I dubbi infatti sono tanti anche perché pochissimi anni fa, fino alla primavera del 2005, era la Fiat in crisi che doveva essere assorbita dal gigante Gm. Certamente la crisi finanziaria globale ha evidenziato i conti truffaldini delle case americane e i buchi vertiginosi in tutte le altre, ma ha anche prodotto un crollo nelle produzioni e nei consumi, settore auto incluso. Per evitare ulteriori
nuove sorprese è quindi necessario conoscere in dettaglio gli accordi finanziari di cui poco si dice. Inoltre, è vero che, dallo sconquasso provocato dalla crisi, in verità si sapeva già da prima, nel mondo emergeranno solamente 4-5 grandi gruppi industriali dell’auto. Entriamo quindi in un inevitabile fase di “mega alleanze” dove è auspicabile una Fiat attiva più che reattiva. Ma è altrettanto
vero che, anche con una stabilizzazione della crisi, il mercato automobilistico occidentale vedrà un ridimensionamento almeno del 20%. Perciò la seconda domanda che dobbiamo consapevolmente porci è: cosa succederà con gli “esuberi” di mano d’opera e di macchinari? Il problema non è soltanto la bravura e la riuscita delle trattative di Marchionne, le cui capacità manageriali non sono in discussione.
La discussione in Italia ha finora evitato accuratamente di affrontare il problema
dei livelli di occupazione e della cassa integrazione. E’ poi reale il rischio di un pericolosissimo scontro tra lavoratori sia a livello nazionale che internazionale. Si parla di salvare i posti degli italiani a scapito di quelli
della Opel tedesca e viceversa. Perciò per mantenere ed espandere l’occupazione e il settore dell’auto è necessario mettere in campo un vasto progetto industriale
anche di riconversione. Se produrremo meno auto, potremmo produrre altri beni necessari allo sviluppo di nuovi mezzi di trasporto pubblico e più in generale di macchinari, turbine, ecc. per altri settori tecnologici, ad esempio quelli legati alle grandi infrastrutture e all’ambiente. Crediamo che non manchino alla Fiat le competenze necessarie a preparare un simile programma. E’ una grande sfida per la Fiat, per l’Italia e per il governo. Ma non è forse una strada obbligata segnata dalla crisi globale più grave della storia?

*sottosegretario all’Economia
nel governo Prodi
**economista

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