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di LEO AMATO
POTENZA – Lo ha chiesto anche ai carabinieri che lo hanno riportato in carcere l’8 maggio dell’anno scorso con l’accusa di estorsione e usura aggravate dal metodo mafioso, proprio lui, «il massimo esponente della ’ndrangheta in Basilicata», chi lo conosceva tra i carabinieri, anche quelli nati e vissuti a Potenza, prima che iniziassero a tallonarlo, coi pedinamenti e le intercettazioni? Ma chi è davvero il boss taciturno ed elegante che in udienza davanti ai giudici sembra una sfinge? Se ne sta con le gambe accavallate e prende appunti senza scomporsi. Non ha mai rilasciato dichiarazioni, ma a un certo punto prese a girare la voce, che anche lui avesse voglia di «menarsi pentito» come tanti. Non era vero, ma che i giudici che l’avevano incastrato fossero partiti per il carcere di Livorno non era passato inosservato.
«Una volta stavamo in macchina con uno – racconta ai due pm dell’antimafia – un parcheggio, una cosa. e facemmo lite, lite verbale, perché io non mi attacco a queste cose. E questo disse: “Meglio che cammini, perché io sono amico di Renato Martorano. Lo disse a me. Solo per farvi capire, io sono conosciuto molto più come nome che come immagine».
«E poi lei glielo disse chi era?», gli domanda Vincenzo Montemurro.
«Glielo dissi, sì, certo che glielo dissi. Gli dissi solo: “Idiota, chiuditi la bocca, perché scemi come a te quanti ce ne stanno”».
Il Quotidiano è riuscito a entrare in possesso del verbale dell’unico interrogatorio a cui il boss si sia sottoposto dal suo arresto nel novembre del 2004 nell’ambito dell’inchiesta “Iena due” sui rapporti tra politica, criminalità, e colletti bianchi in Basilicata. E’ stato a lungo celato dagli investigatori, perché conteneva tra le altre cose anche quei riferimenti ai finanziatori occulti dei suoi presunti giri d’usura, su cui il Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri ha lavorato tutti questi anni cercando di scoprirne i nomi. Alla fine è stato Carmine Guarino, imprenditore usurato, a risolvere il dilemma, rivelando le identità di almeno tre di loro in un colloquio come persona informata sui fatti nello scorso aprile. Da quel momento è scattato il conto alla rovescia e due settimane orsono Matteo Di Palma, l’ingegner Nicola Giordano, e Gerardo Vernotico sono finiti in carcere con l’accusa di usura pluriaggravata (il Tribunale del riesame oggi deciderà delle istanze di scarcerazione presentate dagli avvocati ndr). Il verbale di Martorano è lungo cento pagine, ma in buona parte è ancora secretato. Poi ci sono stralci delle sue lettere dal carcere.
Ma chi è davvero Renato Martorano?
Per l’anagrafe nasce il primo di novembre del 1956. Sua madre è una maestra elementare e il padre un capitano in congedo dell’esercito. Compie studi classici a Potenza, e frequenta l’università di Napoli. Per un po’ fa l’istruttore di nuoto, poi è assunto come dipendente nella ditta di Vincenzo Basentini, segretario personale di Carmelo Azzarà, quand’era presidente della giunta regionale, diventato in seguito un imprenditore di successo nel settore delle forniture per le aziende ospedaliere. Martorano finisce al centro delle inchieste della magistratura verso la metà degli anni Ottanta per sequestro di persona (una condanna annullata dalla Corte di cassazione), una sparatoria nel 1988, armi e droga nel 1991, e associazione mafiosa nel 1994 a Bari. Sempre dal 1994 è un sorvegliato speciale di pubblica sicurezza, ma ancora l’anno dopo è indagato per associazione mafiosa, droga, poi di nuovo associazione mafiosa, infine usura ed estorsione.
Scrive a un’amica il 28 agosto del 2008: «Niente e nessuno mai potrà farmi cambiare (scrive “mai” in stampatello con tre punti di esclamazione). Sappi che più forti sono le privazioni, e più forte io divento».
Ma ad aprile del 2005 sta attraversando un momento difficile perchè suo padre è molto malato. Dice ai giudici che «in dieci anni di detenzione» che ha fatto non è mai venuto a un colloquio. Ha detto: «Io non verrò mai a trovarti in quei luoghi». E domanda il permesso di parlargli per telefono, e per questo decide di rispondere alle domande, ma non è disposto a svelare i nomi dei suoi finanziatori. Per il pm Henry John Woodcock sembra una sfida. «Siamo venuti a interrogarla – gli risponde – perché è il nostro lavoro, quindi possiamo stare anche dieci giorni». Ma alla fine se ne andrà a mani vuote. Martorano perderà il padre. Confesserà il suo dolore in una lettera tre anni dopo: «Io non c’ero e lui se n’è andato senza né potermi vedere, né potermi sentire. Io mi sento in colpa di questa cosa, ma oramai non potrò più riparare all’accaduto».
Il suo racconto comincia da lontano. Nel 1999 Martorano è uscito dal carcere di Avellino. Dice di aver provato tutte le strade per lavorare onestamente, dal netturbino, al parcheggiatore, senza successo, perché la sua storia personale gli impediva di venire accettato. Ritornò nell’agenzia di assicurazioni della moglie, ma il rapporto entrò in crisi quasi subito, e si dovettero separare, quindi si rimise a cercare lavoro. «Mi occupai inizialmente dell’allevamento delle mucche, non perché ero esperto, ma avevo proprio tre giorni alla settimana che mi dedicavo alla pulizia e al foraggiamento di queste bestie. E cominciò anche qua la sfortuna. Arrivò “la mucca pazza”, quindi si chiusero le possibilità di continuare in questo settore». Approdò quasi per caso nel settore delle forniture per l’edilizia, «cominciai a vedere che in quel periodo il mercato dell’edilizia era fiorente. Ovunque si guardava c’erano costruzioni. Quindi cominciai a pensare di potermi indirizzare nel settore, ma per ripiego, non perché ne fossi né capace all’epoca, né avessi esperienza». Ma il Ros gli stava alle calcagna. «Quando ho capito che era una persecuzione su di me ho fatto il lecito come se fosse illecito. Trattavo la vendita di una porta, di una finestra, di un mattone come se dovessi trattare un illecito. Con lo stesso metodo. Vai dalla persona, la contatti, dici alla segretaria: “E’ venuto Antonio?”. Senza lasciare il nome. Andavo via, ritornavo dalla persona, fino a che la contattava, e dicevo a questa persona: “Quand’è qualche cosa mi lasci un bigliettino e ci incontriamo”. Come fosse un illecito. Ma per fare una vendita. Per fare una vendita. Perché avevo paura che ogni cosa che facessi me la bloccaste. Ogni cosa che io facevo di lecito, che io ritenevo lecito, per barcamenarmi la giornata, per me veniva bloccata. Quindi sono stato costretto. Tu mi telefoni, dici: “Ci vediamo”. E io già sapevo chi era. Ma non era uno che doveva fare una rapina, era una persona a cui dovevo vendere qualcosa. Io ho fatto tutto. Ho fatto pure i cesti natalizi. Ho pulito la merda, scusate l’espressione, delle mucche. Ho portato il fieno, la paglia. Ho fatto tutto, tutto, per potermi barcamenare. Vivo in una soffitta, quella è casa mia. Quello sono rimasto, vivo là dentro. A Potenza ormai si pensa: “Martorano sarà Paperon de Paperoni”. Invece è tutto il contrario».
(1. continua)

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