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Adesso bisognerebbe davvero andare fino in fondo. Anzi, raggiungere il fondale.
Lì si troverebbero Anne ed Euro River, due navi battenti bandiera maltese, affondate in uno specchio di mare antistante la costa «che va da Policoro a Ginosa».
Ma nei fondali lucani ci sarebbe anche altro. Nelle acque di Metaponto si troverebbero dei «contenitori a tenuta stagna» sparati in mare come si fa con i siluri.
Non solo fusti interrati in Basilicata, ma anche due imbarcazioni, cariche di rifiuti tossici, fatte inabissare come inabissati sarebbero i siluri tossici. Tutto questo sarebbe avvenuto in periodi diversi. «Una parte nel 1989 e un’altra nel 1992».
Queste la novità che emergono dal verbale di interrogatorio – è il 24 aprile del 2004 – del pentito della ‘ndrangheta, Francesco Fonti che fa anche dei nomi e dei cognomi. Di quelli che contano.
Si va dal senatore a vita «Emilio Colombo» al faccendiere «Francesco Pazienza». Da «Bettino Craxi» al generale «Ninetto Lunganesi» a «Raiola Pescantini». E poi ci sono i clan della ‘ndrangheta: dai Piromalli ai Romeo ai Musitano. Più altri «personaggi della politica locale lucana» di cui «mi riservo di fare i nomi successivamente».
Dichiarazioni esplosive. In una caserma dei carabinieri del nord Italia si trovano Felicia Genovese, all’epoca sostituto procuratore antimafia della Dda di Potenza, il colonnello dei carabinieri della sezione di polizia giudiziaria di Potenza, Gentilini, il sovrintendente Piazzola e l’ispettore del Corpo forestale, Calciano. Davanti a loro Francesco Fonti.
Sono da poco passate le 12.30 quando l’interrogatorio ha inizio.
Il sostituto procuratore antimafia Felicia Genovese, all’epoca titolare dell’inchiesta (insieme all’allora Procuratore capo Giuseppe Galante ) sulle “fughe” di plutonio dalla Trisaia di Rotondella, è in quella caserma perché ha bisogno di capire dove esattamente sarebbero stati sotterati, nel 1987, alcuni bidoni – caricati a bordo di una decina di camion – contenenti rifiuti nucleari.
La Genovese sa esattamente quello che vuole dal pentito, che aveva cominciato a rendere dichiarazioni nel 1994 al sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria, Enzo Macrì.
Tra l’altro questo non è il primo incontro tra la Genovese e Fonti. Si sono già parlati nel dicembre del 2003 e fra marzo e i primi di aprile del 2004.
Fonti, «organico dentro una delle più grosse famiglie – quella dei Romeo – della ‘ndrangheta di Calabria», evidentemente della Genovese si fida.
Non potrebbe essere altrimenti visto quello che le ha già detto e quello che le dirà. In cambio chiede solo protezione per i suoi familiari.
Per lui ha una richiesta: potersi curare dal cancro che l’ha colpito. Arresti domiciliari o ospedalieri e poi, una volta risolto il problema di salute, tornare in carcere per finire di scontare la pena a cui è stato condannato.
Qualcun altro al posto suo, forse, avrebbe alzato il tiro e chiesto di più. Visto che in quello che racconta «c’entra sia la criminalità italiana, sia certi tipi di servizi segreti, sia la criminalità straniera. Sia la mafia russa che quella bulgara».
E poi ci sono «personaggi insospettabili» che ruotano attorno «alla grande finanza che, forse, sono più pericolosi di quelli che appartengono alla criminalità organizzata». E come se non bastasse «ci sono anche elementi della massoneria» che «conosco abbastanza bene» visto il “grado di santa” che Foti ammette di avere raggiunto all’interno dell’organizzazione criminale calabrese.
Il traffico di rifiuti tossici, che avrebbe avuto come centro nevralgico la Trisaia di Rotondella, sarebbe avvenuto, stando a quanto dichiarato da Fonti quel 24 aprile del 2004, grazie alla copertura e alla collaborazione di servizi segreti deviati, «società e banche che hanno appoggiato e gestito» lo smercio, «uomini della ‘ndrangheta e politici dell’epoca».
Tutto questo con l’avallo dell’allora «responsabile del Centro della Trisaia (Tommaso Candelieri, ndr)» che sarebbe stato in stretto contatto con l’ingegnere Giorgio Comerio, l’uomo incaricato «proprio dal Governo di trovare un modo su come seppellire sul fondo del mare» i residui delle ormai dimesse centrali nucleari.
E Giorgio Comerio il modo giusto per fare sparire tutto l’aveva trovato. I rifiuti sarebbero stati inseriti in contenitori a tenuta stagna, che poi sarebbero stati inabissati in mare.
Fatti tutti i suoi studi Comerio sarebbe, poi, «stato bloccato dal Governo» e avrebbe continuato «per suo conto».
E quel «ha continuato per suo conto» ha portato, su esplicita domanda di Felicia Genovese, – all’ammissione da parte di Francesco Fonti che ben due navi sarebbero state fatte affondare nel tratto di mare compreso tra «Scanzano e Ginosa», mentre i “siluri” sarebbero stati inabissati sui fondali antistanti «Metaponto».
Quindi «se noi – domanda la Genovese – dovessimo andare in fondo al mare troveremmo qualche cosa?». La risposta è un perentorio «sì».
Fonti è un fiume in piena. Passa dall’interramento dei fusti all’affondamento delle navi, fino ai bidoni finiti in Somalia.
Il «punto di contatto – si legge nel verbale – è che tutto è partito dall’Enea».
Insomma «il Centro Trisaia era una specie di centro di raccolta» di rifiuti «che provenivano dall’Italia e anche dall’estero». E da Rotondella venivano poi smistati all’estero. Soprattutto in Somalia e Mozambico.
Rifiuti occultati «in bidoni di plastica» di colore «giallo» e trasportati in un arco di tempo che va dalla metà degli anni ’80 al 1997.
Nel 1987 avviene l’interramento, in provincia di Matera, di alcuni fusti. Siamo nel mese di febbraio quando 40 camion escono dal centro Trisaia.
«Quaranta camion che hanno trasportato questi bidoni fino al porto di Livorno» E da Livorno «sono partiti per la Somalia».
Quando questi camion sono stati caricati «una parte è andata verso Pisticci», gli altri hanno proseguito verso nord.
Ma è sui rifiuti interrati in Basilicata che insiste Felicia Genovese che mostrando una cartina stradale della regione chiede a Fonti di indicarle, passo passo, il tragitto seguito fino al punto in cui i bidoni gialli di plastica sono stati seppelliti.
Un viaggio lungo la Basentana fino allo svincolo di «Bernalda».
Poi imboccata una strada secondaria «dopo dieci chilometri» c’era «una specie di silos» oltre il quale si trova «il greto del fiume». E lì «c’era una grande buca, già fatta». E in quella buca «abbiamo scaricato».
Dai fondali ai fondi agricoli, è sempre questione di andare a fondo.
Alessia Giammaria

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