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di FRANCO CRISPINI
Sembrano molto cresciuti in questi ultimi tempi il numero dei meridionalisti e l’interesse per il Mezzogiorno. Effetto certamente, ma non solo, della presenza aggressiva di una Lega Nord e delle sue variopinte campagne contro il Sud, la quale per contro ha contribuito ad accentuare “rivendicazionismi risarcitori” di vario tipo. Ci ritroviamo così non solo in presenza di una miriade di movimenti e piccole formazioni che in alcune regioni del Sud, specialmente, inalberano i vessilli di una santa causa, una crociata, per il riscatto del Mezzogiorno, quanto di pretese di costituire nuove frontiere del meridionalismo, quasi una terza fase dopo quella del Mezzogiorno come una “idea” che ha dato luogo persino a molte retoriche sulla “questione meridionale”, e l’altra di una valorizzazione di positive trasformazioni della realtà meridionale che si sono avute negli anni: una fase in cui si vuole essere un soggetto autonomo ed attivo. C’è molto da capire riguardo a queste coloriture che va assumendo, dalla Sicilia, alla Calabria, alla Campania, alla Puglia, la insistenza su di una complessiva veduta definibile come meridionalista, e sui portatori stessi, fuori e dentro le attuali forze politiche, di disegni territorialisti-localistici in grado dare uno speciale nuovo profilo alle aspirazioni del meridionalismo. Rapporti con lo Stato centrale, gestione delle risorse, soluzioni riparatrici, di definitivo risanamento, del federalismo fiscale: questi i temi più immediati e cruciali di una ventata meridionalistica che ovviamente si pone dentro cornici di difesa di tradizioni, costumi, linguaggi, in una sfida continua con la ideologia “padana” che irride spesso alla identità meridionale (anche se indirizza i suoi lazzi verso altre geografie, la “romanesca”, ad esempio). Sarebbe difficile a chiunque dire che sono la stessa cosa quelli per i quali il Sud è divenuto una palla di piombo al piede di tutto il Paese e che quindi è condannato, e fondamentalmente per sue colpe, a restare indietro nello sviluppo, i quali quindi arrivano a ritenere che non possa esservi una politica nazionale che metta in primo piano il Sud, e coloro invece che non chiedono interventi “eternamente” straordinari, continui trasferimenti (o trasfusioni) di risorse che in ultimo servano solo a foraggiare poi famelici gruppi politici locali pronti a usarle per far crescere le clientele, ma che semplicemente reclamano un impegno per dare al Sud le medesime opportunità di crescita date al Nord, le medesime condizione per superare le disparità tra le due parti del Paese. E’ molto evidente che questi due tipi di meridionalisti e di meridionalismo non stanno nello stesso mazzo, non giocano la stessa partita politica, hanno caratteristiche ben distinte e se è comune ad entrambi il richiamo a situazioni di un permanente allarme per le istituzioni e la vita civile in molte regioni meridionali, che fa sì che, ad esempio, “opposti su ogni altra cosa” (l’espressione è del direttore di questo giornale, Matteo Cosenza) ci si ritrovi concordi a manifestare contro la spietatezza ‘ndranghetista (vedi Reggio Calabria), c’è tuttavia un segno di diversità che consiste nel rigore di una linea che né vuol correre sulla falsariga del leghismo né vuole essere assolutoria di tutto quello che si può fare risalire a responsabilità della classe dirigente meridionale, né tanto meno essere disposta a dare un avallo, con un ministro meridionale come Fitto ed altri, a politiche indeterminate che non si sa come definirle più di ispirazione meridionalista. Tremonti, Brunetta (ed anche altri in questo governo, forse lo stesso Berlusconi), si dichiarano spesso convinti meridionalisti, ma in fondo in fondo confessano, lo ha fatto il ministro Brunetta, che il Paese andrebbe meglio se se ne potesse eliminare in tutto o in parte il Mezzogiorno. Quali meridionalisti si vorrebbe paragonare a costoro? Non ve ne sono molti che auspicano la eliminazione della “questione” attraverso un taglio chirurgico (la desiderata “secessione”), ma di contagiati dal meridionalismo, quello non spurio, ve ne sono pochissimi tra le file dei più recenti convertiti. Rimane certo che la complessa causa del meridionalismo, pur se agitata, non sembra in buone mani quando essa viene fatta servire a materia dei successi governativi o a punto di discrimine all’interno del berlusconismo: si può pensare a Fini cui è stata appiccicata la etichetta di “meridionale”, “suddista”, al punto da volerne bloccare una concorrenza al Nord, area “padana”, una terra che deve restare interamente in mano a Pdl e Lega, tutto al più in gara tra loro. La dilatata famiglia dei meridionalisti, paragonabile a quella dei riformisti, si presenta dunque al suo interno abbastanza composita, e riconosciamo che questo aspetto meriterebbe di essere meglio approfondito, in quanto gli approdi teorico-politici di una azione meridionalista restano indefiniti per molti che vogliono pregiarsi di quel ruolo. Se oggi presentarsi come portatori di un programma meridionalista vuol dire qualcosa, questo non può ritrovarsi in una generica rivolta, in un “altro” secessionismo, o in un ricatto verso chi governa per scucirgli risorse, o in tattiche di copertura di opposte scelte di campo, ma dovrà consistere nel fissare precisi obiettivi, nell’indicare tempi e metodi, nel chiedere la partecipazione democratica, cosciente e responsabile, di tutti gli attori sociali del Mezzogiorno.

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