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di FRANCO CIMINO
Il presidente Giorgio Napolitano ha parlato per la quinta volta al Paese. Lo farà ancora per i prossimi due Capodanni. Come sempre, anche questa volta tutti sono d’accordo con lui. Maggioranza e opposizione hanno plaudito alle «magnifiche» parole del capo dello Stato. Cosa significa? Delle due l’una. O tutti sono diventati buoni e responsabili, oppure il presidente non ha detto nulla di significativo. Solo affermazione generiche, prive di contenuto. Frasi buone per tutte le occasioni, condite di sterile equilibrismo tra le parti in campo. Sappiamo però che così non è. Alle frasi di circostanza dei leader delle forze politiche, frutto della tattica del cerino o dello scaricabarile, non seguono comportamenti responsabili e politiche di autentica unità nazionale. Ciascuno gioca per sé, tutti concorrono allo sfascio dell’Italia. Ci si alterna tra la volontà di andare presto alle urne e quella di prolungare la vita di un governo ormai agonizzante e privo di una maggioranza politica qualificata. E questo a giorni alterni, e secondo le stime dei tanti sondaggi che ad horas misurano il polso degli italiani. E allora è Giorgio Napolitano a restare sul generico e sulla inconcludenza? No. Come giustamente ha scritto Matteo Cosenza, l’Italia ha un grande presidente. Egli ha fatto un discorso di alto profilo. Bello sul piano linguistico ed elegante sul piano stilistico. Bello anche nei toni sinceri e “meridionali” con cui lo ha espresso. Un discorso della responsabilità. La sua, di rappresentante degli italiani e di presidente, con la p maiuscola. E quella che dal suo dire negativamente discende su quanti hanno la responsabilità di come sta oggi l’Italia. E non sono pochi. E non è solo Berlusconi. E non appartengono tutti esclusivamente a quest’ultima misera stagione politica. E’ responsabilità che inanella colpe di oggi e di ieri, quando con una continuità impressionante si è pensato che la crescita del Paese potesse essere separata dallo sviluppo e l’aumento della ricchezza dalla civiltà, il principio dell’eguaglianza dalla solidarietà, l’unità d’Italia dal riscatto del Mezzogiorno. La ferma determinazione, intessuta di espressioni anche poetiche, con cui Giorgio Napolitano ha affrontato la questione giovanile – «i nostri ragazzi» – trasforma l’appello in denuncia e il problema dell’Italia nella soluzione del problema. I giovani sono il futuro, l’Italia che dobbiamo costruire e salvare è intimamente unita a quella nuova che dobbiamo lasciare ai giovani. Sono concetti forza, parole davvero sante. Tuttavia esse stesse contengono un limite e una contraddizione che neppure il presidente, un grande presidente come lui, ha saputo sciogliere. I giovani vengono ancora considerati dei figli da accudire, una categoria sociale debole e priva di autonoma capacità e senso critico. Parlare ancora di futuro da affidare loro – tra l’altro un futuro sempre più futuribile e pertanto irraggiungibile – è come negare la loro forza sociale, il loro essere prima, cioè oggi, rispetto a il dover essere in un tempo in cui quelli di oggi non saranno più giovani. Il futuro è adesso. E passa dalla politica. Il luogo dal quale essi sono stati tenuti fuori e quello dal quale potranno iniziare a cambiare l’Italia se essi vi entreranno. O perché si aprono le porte, oppure perché quelle porte saranno scardinate. Giorgio Napolitano ama i giovani, ma ancora non dice quel che loro, che amano il presidente, vogliono sentirsi dire: trasformate la vostra rassegnazione in rabbia e questa in ribellione. Fate dei vostri bisogni il motivo unificante di una nuova coscienza politica. Che urli forte contro la vetustà del potere, l’inadeguatezza della classe dirigente, l’ipocrisia di un superato rituale politico. Per non rinviare sine die il futuro. Per non cancellare definitivamente i giovani dal futuro.

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