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di FRANCESCO BOCHICCHIO
IL PREMIER inglese, il conservatore Cameron, ponendosi sulla scia del Cancelliere tedesco Merkel, ha espresso dubbi sul multiculturalismo, evidenziando la necessità che gli immigrati rispettino le regole e i costumi del Paese ospitante e si adeguino a questi: è un’osservazione rientrante in un’ottica realistica di convivenza sociale, dove gli ospitanti non possono rinunziare alla propria essenza ed al modo di vivere dei propri cittadini, vale a dire ai diritti di questi. Il multiculturalismo viene quindi ritenuto il frutto di un’ideologia progressista e universalistica priva di aderenza alla realtà concreta del diritto: è, nella migliore delle ipotesi, un’utopia totalitaria, a danno dei cittadini ospitanti. I dubbi sul multiculturalismo, nonostante il modo lineare con cui si presentano, si fondano su un equivoco insuperabile: essi richiamano le regole fondamentali dell’Europa, che peraltro si snodano nel senso del rispetto dei principi, dei costumi e della prassi di ciascuno purché non violino gli altrui principi, costumi e prassi, e purché non infrangano le regole comuni e quindi l’ordinata convivenza sociale. Nell’Occidente il ruolo fondamentale è costituito dall’Illuminismo e dal razionalismo che in chiave di ragion pratica si traducono nel senso del pluralismo. L’Occidente quindi non rinunzia ai suoi principi e ai diritti dei propri cittadini accettando il multiculturalismo, ma è vero solo e proprio il contrario, vale a dire che solo il multiculturalismo è rispondente ai principi e ai diritti dell’Occidente: vi è il solo limite dell’ordine pubblico, vale a dire del principio imperativo in base a cui gli ospitati non violino la convivenza sociale, ma questo è un limite di stretta interpretazione ed è da intendere nel solo senso di sicurezza pubblica, senza acquisire quella veste espansiva che i movimenti razzisti e xenofobi, quale la Lega Nord in Italia, gli attribuiscono. L’abbandono del multiculturalismo risponde a un tradimento dell’Occidente ai propri principi. E ciò si traduce direttamente e immediatamente in politica estera. La Libia e l’Egitto sono il classico esempio del fallimento della politica estera dell’Occidente, con il primo in cui era appoggiato un sistema autoritario amico degli Stati Uniti e in Libia, e la seconda, in cui vi era un regime totalitario e illiberale con il quale i rapporti erano tenuti in funzione del petrolio e della funzione di cerniera con il mondo arabo. Finita la guerra fredda, l’America ha assunto una funzione egemone nel mondo ma non è riuscita ad imporre la propria volontà, per l’impossibilità di un centro di comando unitario ed unico: dall’egemonia, predominio che non esclude il consenso degli altri, non si è passati all’impero, per antonomasia incurante dell’appoggio dei sottoposti, non a caso chiamati “sudditi”. La politica unilaterale dell’America in funzione delle sue convenienze, con l’appoggio strumentale a regimi liberticidi e la mancata soluzione della questione palestinese, ha isolato l’America e con l’America anche l’Europa, incapace di fungere da limite all’America. Né si può sostenere che il problema principale è l’arretratezza degli altri Paesi, di cui l’Occidente non si può far carico: il problema vero è perché l’Occidente non abbia agito per ridurre l’arretratezza, avendo addirittura favorito il rafforzamento dell’arretratezza. L’egemonia non può non comportare l’esigenza di farsi carico dei problemi degli altri, e quindi l’Occidente che si è crogiolato nell’arretratezza altrui non può non risultare il vero e principale responsabile del caos mondiale che si sta determinando. Del resto, palese è l’incoerenza di chi in Iraq ed Afghanistan voleva esportare la democrazia e adesso piange per il totalitarismo di questi Paesi. Incomprensibile è la posizione di illustri politologi quale Angelo Panebianco, che invita, in nome di un fondamentale realismo, a non trascurare al dialettica tra giusto ed utile, dimenticando che, una volta abbandonata, in quanto assolutamente non praticabile, la strada dell’impero, l’effettiva democratizzazione, in termini non unilaterali, e lo scambio non ineguale rappresentano condizioni essenziali per il consenso. C’è chi si preoccupa dell’eccessivo rialzo del petrolio: e sono gli stessi che hanno sempre sostenuto le dure e ferree leggi della globalizzazione, che portano ad un abbassamento dei salari ed a un ridimensionamento dei diritti dei lavoratori; la globalizzazione e le leggi del mercato internazionale, utilizzate dal sistema capitalistico occidentale a proprio vantaggio, non possono non funzionare anche a danno del sistema capitalistico occidentale, e quindi occorre un intervento globale e coerente per governare la globalizzazione. Per concludere, chi scrive non riesce ad appassionarsi del dibattito sorto all’interno della sinistra radicale ed in particolare sulle colonne dell’amatissimo “Manifesto”: la democrazia dei Paesi in via occidentale è necessaria, e così è necessario l’abbattimento dei tiranni, ma occorre abbandonare una volta per tute il sogno di una democrazia alternativa a quella occidentale; la democrazia rappresentativa occidentale e il “Welfare State” sono senza alternativa e solo una loro generalizzazione può rappresentare la chiave di volta per un controllo effettivo sulla potenza unilaterale americana e sul capitalismo occidentale. Di qui non si scappa e l’atteggiamento dell’Occidente che si è crogiolato nella arretratezza dei Paesi in via di sviluppo dovrebbe essere decisivo per spingere la sinistra ad un atteggiamento unitario e coerente sulle basi di un riformismo rigoroso e non rinunziatario. La sinistra riformista deve abbandonare le proprie cautele ed i propri timori che l’hanno trascinata su un terreno di liberismo lievemente corretto, ma la sinistra radicale deve abbandonare i sogni, per confrontarsi, marxianamente, con la dura realtà.

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