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L’ALLARME pubblico non lo darà subito, anzi ci impiegherà un anno e mezzo per decidersi a farlo. Ma Vincenzo Sigillito, ex direttore dell’Arpab, quando nel 2008 (secondo la sua ricostruzione dei fatti) capisce per la prima volta di avere a che fare con una bella grana, tenta subito una collaborazione con l’Università di Basilicata. Dalle analisi di cui il dirigente viene in possesso, nei nove pozzi di Fenice i valori di nichel, fluorite e soprattutto, mercurio hanno ampiamente superato i limiti massimi fissati dalla legge. Quelle anomalie vanno verificate. C’è bisogno di comprendere quale sia la causa dell’inquinamento e se la responsabile sia proprio Fenice. Allora Sigillito, in accordo con la stessa società che gestisce l’impianto, si rivolge all’ateneo lucano e quest’ultimo, in un primo momento, accetta la collaborazione. Intercorrono riunioni e comunicazioni scritte. Il tutto nello stesso mese di marzo. L’obiettivo è predisporre un approfondito studio che possa permettere, in maniera esaustiva, di evidenziare le cause delle criticità emerse. Del resto, a gennaio dello stesso anno, il comune di Melfi, con parere Arpab, aveva emesso un’ordinanza che vietava l’utilizzo delle acque ai proprietari terrieri confinanti con l’ex Zuccherificio del Rendina, perché probabilmente inquinate proprio a causa delle attività della società Finanziaria Saccarifera Italo Iberica spa. Come escludere a priori che le due vicende non siano collegate?
Con un documento ufficiale che porta la data del 28 marzo, l’Arpab affida l’incarico e al professor Giuseppe Spilotro, docente di Idrogeologia applicata presso la facoltà di Ingegneria dell’Università di Basilicata, che a sua volta si avvarrà della collaborazione della dottoressa Maria Pia Vaccaro dell’Arpab. Sigillito chiede una dettagliata analisi dello stato di fatto, un programma delle attività da svolgere, che – precisa pure nel documento – dovranno essere ultimate entro il 2008, in moda da portare al superamento delle problematiche evidenziate. Nella nota si specifica che a farsi carico degli oneri economici dello studio sarà la società Fenice Spa, che è il soggetto che attiva materialmente la convenzione con l’Unibas. A scadenza dei termini, però, quindi a dicembre del 2008, il dipartimento di Geotecnica e geologia applicata all’ingegneria chiede una proroga di sei mesi «in quanto gli studi hanno trovato difficoltà esecutive di vario ordine, non del tutto risolte». L’Arpab dà l’ok alla proroga. Ma dopo qualche mese arriva il colpo di scena, prima della scadenza dei termini: a fine marzo del 2009 il dipartimento dell’Unibas dà forfait e abbandona il progetto. Con questa motivazione rappresentata dall’ateneo a Fenice e all’Agenzia: i dati disponibili fino a quel momento, per quanto riguarda la geologia e l’idrogeologia, derivano integralmente da relazioni professionali già elaborate da terzi per Fenice, quindi non è possibile fornire informazioni aggiuntive. Ma c’è soprattutto un altro motivo che spinge l’Unibas a tirarsi indietro. A ribadirlo alla redazione del Quotidiano, lo stesso professor Spilotro, raggiunto ieri telefonicamente: «Al fine del nostro studio idrogeologico, per comprendere la natura dell’inquinamento in corso e soprattutto le cause, chiedemmo di avere accesso ai punti acqua dei terreni confinanti con Fenice, al fine di poter effettuare le analisi. Ma a nostra richiesta ci fu comunicata l’indisponibilità da Fiat ed ex Zuccherificio del Rendina». Sata e Finanziaria Saccarifera non acconsentono, quindi, a questi ulteriori accertamenti che permetterebbero di individuare e circoscrivere il fenomeno. Naufraga così il progetto dello studio che Sigillito, in accordo con Fenice e Unibas, aveva pensato di portare avanti. E’ marzo del 2009. Lo stesso mese in cui scoppia scoppia l’emergenza, con la prima comunicazione ufficiale dell’inquinamento in corso, e la successiva ordinanza dell’allora sindaco di Melfi Navazio che vietava l’utilizzo delle acque. Tutto il resto è ormai storia nota. Per arrivare ai giorni nostri. Giuseppe Spilotra, di nonna lucana, è ancora docente all’Unibas e sulle polemiche dell’ultim’ora ha un’idea precisa: «Fenice – dice – non va chiusa. Il contrario significherebbe fare la fine di Napoli. Sarebbe un scelta irresponsabile. Credo che i problemi dell’impianto di San Nicola possano essere risolti con adeguati interventi e soprattutto con un serio piano di bonifica. Il mio parere: non siamo di fronte a una centrale nucleare. Non una, allora, ma tre, cinque Fenice, a patto che siano assicurati monitoraggi seri e continui, gestione responsabile e non da idioti come solo la politica è capace di fare».

Mariateresa Labanca

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