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di BATTISTA SANGINETO
IL governo di estrema destra attualmente in carica ha deciso di passare all’attacco riguardo ad un elemento di vitale importanza per il turbo capitalismo: la flessibilità. La flessibilità intesa come rimozione di tutte le regole e le tutele – come l’art. 18 che nacque, lo ricordo ai più giovani, per evitare che i sindacalisti nella Fiat di Valletta finissero nei “reparti speciali” – usata per far ripiombare i lavoratori nel XIX secolo e la flessibilità intesa come pieghevolezza permanente, produttiva, emotiva e affettiva degli uomini e, in particolar modo, dei giovani.
Nel corso degli ultimi tre decenni l’establishment culturale, sociale e politico ha assecondato e incoraggiato, per suoi fini, una idiosincrasia giovanile, presente fra i giovani di tutte le epoche, a immaginare e accettare che si possa imparare un mestiere o una professione e farli per tutta la vita, probabilmente nello stesso luogo. Larga parte del sistema economico e sociale occidentale è andato trasformandosi dalla fine degli anni ’60 in seguito al cambio del paradigma culturale prodotto dalla rivoluzione dei costumi, la sola che tutti pensano sia riuscita senza spargimento di sangue. Quella cultura giovanile che è diventata giovanilistica, figliastra del ’68, quel pensiero pseudo-romantico “on the road”, quel multiculturalismo interpretato prevalentemente come accettazione acritica delle culture altrui, del “sesso, droga e rock & roll” sono stati sapientemente usati per far attecchire una generale intolleranza alla stabilità geografica ed emotiva da parte dei giovani. Una parte consistente della cultura occidentale di questi ultimi decenni – sotto forma di romanzi, musica rock, saggi, film, giornali e riviste, dibattiti televisivi, psichiatri e psicanalisti – ha voluto convincerci, persino, che non fosse del tutto normale avere un solo amore, un solo rapporto amoroso costruito, con fatica e sapienza, per farlo durare tutta la vita, ma che era naturale e giusto, invece, averne più d’uno. Una delle conseguenze più patetiche è la grande quantità di divorzi, di nuovi matrimoni, anche fra vecchi, che comportano più cerimonie, regali e viaggi di nozze, più case, più mobili, più consumi, insomma. La nostra è, ormai, una società nella quale a essere flessibili non sono solo i rapporti di lavoro, ma, conseguentemente, anche quelli umani, di amicizia, familiari. Anche l’amore, in un mondo flessibile, è a tempo determinato tanto che è spesso sostituito da una serie illimitata di relazioni ispirate solo dal desiderio, dalla voglia insindacabile di consumare rapporti sessuali e amorosi, a qualunque età. Quando si dice l’eterogenesi dei fini!
Una nemesi storica si è abbattuta su quella generazione, sulla mia generazione, che innescò quella rivoluzione che ha prodotto un mutamento antropologico; non più un uomo produttore dedito al futuro inserito in una collettività, ma un individuo solo, senza radici, sensuale, dedito al soddisfacimento dei desideri (spesso scambiati per bisogni) e delle aspettative che devono realizzarsi nel tempo presente, “hic et nunc”, senza preoccuparsi, senza doversi preoccupare di quel che avverrà poi oppure agli altri: un gigantesco, collettivo ed egoistico “carpe diem”.
Se si escludono alcuni lavori particolarmente specializzati, il modello e la pratica della vecchia Europa hanno significato, invece, un lavoro ben fatto, che spesso si tramanda da generazione in generazione, compiuto nello stesso luogo in cui si nasce, si cresce e si muore in un contesto relazionale forte e rassicurante, che non significa, necessariamente, la condanna all’immobilità sociale ed economica. Un modo di vivere e di produrre diverso da quello dell’America dove esiste una mobilità geografica, sociale ed economica da sempre, consustanziale alla fondazione di quel grande paese. In Europa, e in particolare in Italia, gli orizzonti degli uomini sono compresi nella propria città, nel proprio paese, nel proprio territorio e in essi hanno trovato e costruito la loro identità individuale e collettiva. Perché importare un modello così estraneo alla cultura europea se non perché si ritiene che esso sia più funzionale allo sradicamento degli individui e dei gruppi sociali, necessario all’ideologia del libero mercato senza regole? Ci vogliono convincere, Monti e Bersani, che il mondo migliore possibile è quello abitato da individui nomadi, senza memoria, senza identità, ma che hanno l’esigenza impellente e continuativa di soddisfare i propri bisogni per mezzo dei consumi. Non voglio mettere in discussione la necessità di un’apertura degli individui e delle comunità al vasto mondo – noi calabresi vissuti per secoli fra le montagne portiamo ancora i segni, sociali ed economici, dell’antico isolamento – bensì il bisogno che essa debba esercitarsi, esclusivamente, attraverso la produzione e lo scambio delle merci. Il risultato di questo modello anglosassone, importato dalla Thatcher anche in Inghilterra, non sembra, peraltro, essere dei migliori nemmeno riguardo alla creazione di una migliore flessibilità sociale ed economica di quei paesi. Una ricerca condotta dal Censis, pubblicata ieri dal “Corriere della Sera”, rivela che la persistenza degli stessi guadagni tra le diverse generazioni è più alta in Inghilterra, poi in Italia e di seguito, di poco, negli Usa, mentre la possibilità che un figlio guadagni più del padre è molto più frequente nei paesi del nord Europa, Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia. La ricerca dimostra, “de toute évidence”, che il modello europeo socialdemocratico favorisce più di quello liberista la mobilità e flessibilità sociale e, quindi, una più equa distribuzione della ricchezza.
Fino a un paio di decenni or sono la vita di molti uomini era riempita di senso dall’offerta delle proprie esistenze alla Storia, erano uomini che consapevolmente rinviavano la realizzazione di una società perfetta alle future generazioni, legittimando il sacrificio di quelle presenti e mettendo la propria esistenza al servizio di ideali a lungo termine. Ora quel meccanismo dilatorio non funziona più perché le aspirazioni dei singoli hanno come respiro temporale solo quello, spiccio, della loro vita individuale. Questa perdita di senso del futuro, questo smarrimento della speranza di poter costruire una società migliore sono state determinate dalla sconfitta della forza palingenetica della politica che per almeno due secoli aveva guidato gli uomini, le società e le classi dirigenti, in modo particolare quella della sinistra. Suona particolarmente paradossale che vada rivendicando la primazia della politica, praticamente da solo, Giulio Tremonti.
È sempre più urgente costruire una sinistra che sia capace di mettersi alla testa delle rivendicazioni operaie, della gente comune con i forconi, della evidente ira giovanile, una sinistra che sia in grado di dar loro contenuti e metodi di analisi e che sia capace di portare sul piano di una visione fermamente antiliberista i bisogni e le istanze dei compositi, un po’ confusi, ma sempre più vasti strati sociali che iniziano a opporsi a questo governo. La situazione è ottima.

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