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4 minuti per la lettura

di EMMA LEONE
e FRANCESCA MUNNO
EGREGIO direttore, abbiamo letto ieri sul “Quotidiano della Calabria”, la lettera che Maria Concetta Cacciola scrisse nel maggio 2011 alla madre prima di andare via da casa sua e collaborare con la giustizia. Maria Concetta andava via da una realtà che la opprimeva, da un marito (Salvatore Figliuzzi, che appartiene a una delle famiglie di ‘ndrangheta di Rosarno) che aveva sposato a soli 13 anni. Maria Concetta andava via da quella vita che non le permetteva di vivere liberamente sin dall’infanzia. Una figlia che scrive alla madre, una madre che prova a proteggere i figli, e un’altra madre che chiude il suo cuore e, invece di proteggere la figlia e i suoi nipoti, versa violenza su di loro! Sofferenza nelle parole e nell’ultimo gesto di Maria Concetta, “suicidatasi” con l’acido muriatico il 20 Agosto 2011. Spesso ci siamo fermate a riflettere sulle donne che sono nate in una famiglia di ‘ndrangheta. Spesso abbiamo riflettuto sul ruolo della donna sia all’interno della società che dentro le famiglie mafiose. Ci siamo sempre chieste come fa una donna a vivere così, priva di libertà, ma soprattutto: il cuor di mamma dove va a finire? La lettera che abbiamo letto ieri mattina è di una ragazza di 31 anni, cresciuta troppo in fretta, cresciuta in ambiente malavitoso, ma è anche di una figlia che tenta di aggrapparsi proprio a quel “cuor di mamma” con una richiesta d’aiuto, non per se stessa, ma per i suoi figli. Maria Concetta sentiva di non appartenere a quel sistema criminale, pur facendo parte di quella famiglia. Lei subiva violenze, privazioni, era solo e semplicemente una ragazza di 31 anni che non si è amalgamata a quel tessuto sociale a cui apparteneva la famiglia. Stava scegliendo di vivere, di dare un futuro diverso a lei e ai suoi figli. In quelle parole di Maria Concetta si legge benissimo quanto era consapevole del sistema criminale, di quell’ “Onore” che deve essere rispettato e lei comprendeva lo stato della madre, sapeva che non era facile uscire da quella “famiglia”. Si appellò alla coscienza di una donna; quelle parole di figlia si rivolgono al cuore di una madre. Nonostante le violenze psicologiche che le aveva riservato, Maria Concetta va oltre, le chiede perdono per la scelta che aveva fatto: collaborare con la giustizia. E nonostante tutto, lei, figlia, madre, scrisse a sua madre: “Ti supplico non fare l’errore a loro che hai fatto con me… Dagli i suoi spazi … se la chiudi è facile sbagliare, perché si sentono prigionieri di tutto. Dagli quello che non hai dato a me”. Quegli spazi che le hanno privato sin da quando era piccola. Prigionieri in una casa, prigionieri di quelle catene che la ‘ndrangheta con forza e arroganza mette alla famiglia. La madre di Maria Concetta è vittima anche lei del sistema della “’ndrangheta”. E allora perché tanta violenza psicologica?! Perché una madre si riduce a tutto questo? Non voleva niente Maria Concetta, lo scrisse lei: “Mi sono resa conto che in fondo sono sola, sola con tutti e tutto, non volevo soldi … era la serenità, l’amore…” Già, quell’amore negato, ma anche quell’amore infinito per i suoi figli. Non sappiamo se si poteva far prima qualcosa. Non sappiamo perché i figli erano rimasti ai genitori di Maria Concetta. Lei ha deciso di suicidarsi perché le avevano detto, in maniera errata, che non avrebbe più rivisto i suoi figli, e quell’amore di madre non avrebbe mai sopportato quel dolore. Noi non sappiamo se si poteva fare di più e meglio per evitare il suicidio, per “proteggere” lei e i suoi figli, ma oggi, per quanta rabbia si possa provare, da donna, questa lettera non può che suscitare sofferenza, dolore. È uno spaccato crudele di una realtà all’interno di una famiglia ‘ndranghetista, ma è uno spaccato che richiede una riflessione più profonda, seria, perché nessun altro può vivere con le catene dell’oppressione, della mancata libertà di scegliere. Oggi però il nostro pensiero va ai figli di Maria Concetta Cacciola, alla figlia di Lea Garofalo, che con coraggio sta testimoniando al processo per la morte atroce di sua madre a Milano, ai figli di Giuseppina Pesce, a cui auguriamo quella vita di libertà che le loro madri desideravano per loro. Spero che possano curare quelle “ferite” che hanno procurato loro, madri che amavano e amano i loro figli, e che da quell’amore possa ricominciare un’altra vita, priva di violenze, priva di pressioni, semplicemente una vita di libertà e di serenità. Nessun altro bambino, nessun’ altra donna, nessun altro uomo, deve subire tutto questo. Non loro che hanno scelto di VIVERE LIBERI. È di quella libertà di cui tutti noi abbiamo bisogno, ecco perché, direttore, la sua proposta dell’8 Marzo è un’idea bellissima, perché chi sceglie il coraggio di denunciare ha bisogno di essere ricordato. Tre giovani donne, nate in ambienti “ostili” ma che hanno preferito la dignità e l’amore per i propri figli: pur pagando un prezzo altissimo, tutto questo, la loro esperienza, possa essere ricordato per stimolare donne che ancora vivono in famiglie di ‘ndrangheta, possa nascere davvero la forza delle donne e di quelle madri che per amore dei loro figli possono cambiare la Calabria. E far risplendere quella mimosa come simbolo che nulla è perduto.

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