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MI CHIAMO Gaetano Cappelli  e sono nato a Potenza. Non Cosenza, Potenza, ovvero il capoluogo di regione più alto d’Italia, come fieramente recitavamo alle elementari. E’ lì, in quel nido d’aquile, che ho continuato a vivere e per questo sono conosciuto, tra l’altro, come “lo scrittore di Potenza”. Formula letterario-geografica che, per quanto vieta, può pure dare un qualche ritorno come per esempio capita, rimanendo al Sud, ai miei omologhi di grandi fascinose città come Napoli o Palermo, ricche e popolose come Bari, ma anche di Matera dopo i film di Pasolini e soprattutto “Dépescion” di Mel Gibson. Ma nascere e pascere a Potenza quale appeal può mai avere?

Eppure ci fu un tempo in cui tutto sembrò esser cambiato! Ricordo ancora, e con una certa emozione, il giorno in cui, parlando al telefono con un tizio di Viareggio, per la prima volta in vita mia non dovetti né spiegare dove il mio borgo si situa, né specificare: «Potenza!, non Cosenza». Anzi lo sentii gorgheggiare allegro: «Ah, Potenza!» e poi, dopo la piccola pausa che un sorrisetto complice richiede, aggiungere: «Vallettopoli, eh… ve la spassate, oh!».

Essì, in quegli ormai remoti giorni il signor John Henry Woodcock, certo spendendo qualche milione di euro in intercettazioni, era comunque riuscito lì dove tutti avevano fallito: fare di Potenza, non solo un posto conosciuto, ma un luogo dove succedevano, tutto sommato, delle cose divertenti. Eh, ma quei meravilliuosi giorni sono ormai solo un ricordo e la città è di nuovo sprofondata nell’oblio recuperando in pieno l’ alone di tristezza che pare da sempre avvolgerla.

Eggià perché, pur non conoscendone l’esatta collocazione, l’interlocutore medio è comunque consapevole che, a Potenza, qualcosa di non proprio gradevole, anzi fondamentalmente triste, sia successo – e questo a prescindere anche dal terremoto, di ormai trentanni fa.

Il fatto è che già Pirandello, nelle sue Novelle per un anno, dovendo raccontare la storia di un funzionario che si vede distrutta l’esistenza a partire da un semplice trasferimento in una città del Sud, dove va a fartelo trasferire se non proprio a Potenza; ma il colpo decisivo doveva assestarcelo, qualche tempo dopo, Carlo Levi – che sia stramaledetto, amichevolmente,  per ogni volta volte che m’è toccato sentirmi pietosamente dire: «Ah, sei di Potenza… Carlo Levi eh, Cristo s’è fermato ad Eboli eh, la terra fuori dal tempo e dalla storia eh!» e magari avevo appena pubblicato un saggio sull’influenza dei gamelan di Bali sull’avanguardia minimalista newyorkese!

A raccontarvela tutta, io, sarà anche il capolavoro che dicono, ma non sono mai riuscito a leggerlo fino in fondo, quel libro.

Diciamo che non è il mio genere. Diciamo pure che non sopporto chi pensa che siccome sei lucano, di Potenza, tu debba per forza averlo letto e apprezzato. Diciamo che, ancora di più, non sopporto quelli che, da quando son diventato scrittore, sentenziano: «Ma come, tu sei lucano, di Potenza, la  terra fuori dal tempo e dalla storia di cui narra Carlo Levi in Cristo s’è fermato a Eboli e invece di scrivere di contadini e magia, emigrazione e briganti scrivi di Karrieren und  Affären» – “carriere e intrighi sentimentali”, come ha utilmente sintetizzato uno dei miei editori tedeschi.

Ora si dà il caso che, a Potenza, proprio a un centinaio di metri da casa mia – che non è uno jazzo da bracciante lucano ma un normale super-attico con vista a dir il vero piuttosto gradevole – c’è piazza XVIII Agosto; in città nessuno aggiunge certo: 1860.

Questa data indica il giorno preciso dell’insurrezione dei potentini che “tra i primi nella nazione alzarono il vessillo dell’Unità d’Italia” come, sempre alle elementari, recitavamo fieri. Intendiamoci, per quanto mi riguarda, se fossi vissuto all’epoca me ne sarei sicuramente rimasto a letto a dormire; ma se, per assurdo, avessi deciso di rischiare la pelle, be’, di sicuro lo avrei fatto per il Regno d’Italia essendo quella la scelta obbligata per chiunque volesse sentirsi davvero up to date, mica per altro! Potevi mai schierarti con l’esercito di Franceschiello, finendo magari in un drappello di pacchianissimi briganti tagliagola?

Quindi, se è vera come è vera la faccenda del nostro scatto da velocisti nella suddetta insurrezione così “fuori dal tempo e dalla storia”, come ci ha effigiato Levi, noi lucani non lo siamo mai stati.

La verità è che Carlo Levi avrebbe tranquillamente potuto scrivere il suo Cristo anche se il duce, invece di spedirlo al confino nello sperdutissimo Aliano, lo avesse inoltrato in uno di quei paesini altrettanto sperduti della Valtellina sebbene non lontanissimi da Milano, dove, a quanto si dice, in quegli stessi anni ancora si incontrava ancora l’Homo Selvadego – “E sonto un homo selvadego per natura, chi me offende ghe fò pagura”. 

Certo avrebbe dovuto pubblicare il suo famoso best seller con un titolo diverso, tipo Cristo s’è fermato a Sondrio; e chissà  poi se avrebbe avuto quel suo formidabile  successo.

E comunque fu per tutto questo se, quando mi presentai al pubblico col mio primo libro, “un Bildungsroman in forma di spy story”, come venne bellamente definito dal mio editore Cesare De Michelis, lo pregai di non scrivere, in copertina, che ero di Potenza. Non volevo essere scambiato per uno dei soliti scrittori meridionali. Allora, e stiamo parlando della fine degli anni 80,  sembrava infatti che nascere in Meridione, oltre ai piccoli altri inconvenienti che questo comporta, significasse inoltre essere condannati a scrivere di lotte contadine ed emigrazione, e turpi incesti e magia e cupe storie di famiglie in disgrazia.

Oggi, per fortuna, le cose sono cambiate. Io stesso sono cambiato e mi sono dovuto arrendere all’idea che anche il posto in cui sei nato, e dove soprattutto vivi, non può non influire su quello che scrivi.

Anzi, in un mondo che va sempre più perdendo i suoi confini si cerca, di fatto, un certo suono, un ritmo insolito, un timbro che venga da un posto preciso e in quel posto ti riporti restituendoti un universo sconosciuto, distante e perciò stesso degno d’essere esplorato e, forse, amato.

Uno dei romanzi che ho più letto e riletto negli ultimi anni è Solomon Gursky è stato qui del mai troppo compianto Mordecai Richler. Ambientato nelle lontane gelide dimenticate terre del Canada,  è un romanzo grandioso, uno di quelli che come scrive Harold Bloom, a proposito del capolavoro in letteratura, ci donano più vita, riuscendo a comunicarci lo straordinario e questo nonostante sia pieno di tutti i luoghi comuni uno possa immaginare sul Canada; che è quindi popolato di pionieri beoni, eschimesi superstiziosi, famiglie di ricchi senza scrupoli, giornalisti alcolizzati, belle e selvagge donne, predicatori visionari, ma in modo però che tutto questo rientri, rivitalizzandosi, nell’esistenza di un classico antieroe contemporaneo.

Ecco, oggi io sono più aperto e possibilista di una volta rispetto al nostro serbatoio di storie e miti lucani e addirittura mi auguro che qualcuno, tra noi basilischi, riesca a scrivere un’epopea simile a quella di Richler, partendo proprio da materiali analoghi a quelli che lui ha usato e che potrebbero essere proprio le vecchie storie di briganti sanguinari, avidi latifondisti, nobili viziosi, contadini rivoltosi, maghe invasate che una volta personalmente aborrivo, sempre però con la componente per me essenziale della contemporaneità: cioè con un protagonista dei giorni nostri che in qualche modo si trovi coinvolto da quei personaggi del mito.

Be’, visto che ci siamo posso confessarvi un segreto: è questo il romanzo che da anni sto provando a scrivere io.

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