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Caro Corona,

la ringrazio molto per il suo contributo politico e filosofico.

Sto provando, con le mie poche forze, di aggredire frontalmente la rimozione collettiva del corpo, ovvero della malattia, dell’osceno, del sogno nel suo apparentamento con l’incubo. E della poesia, che non è estasi o bellezza, ma struggimento, esperienza del vuoto, ricerca della lingua, che è altra cosa dal linguaggio. Ci vuole meno luce e più buio, perché solo nel buio cresce il pensiero e lo spavento, e dunque la fraternità, l’odore vero dei corpi gettati nel mondo.

L’orrore moderno della mia terra è in questa crisi della fraternità, cioè di una fraternità, ora perduta, atrocemente figlia della morte. Solo chi agisce nel pensiero della morte conosce la fraternità. Oggi, invece, la morte è solo il terrore rimosso, e questa rimozione crea tracotanza, cultura senz’anima, autismi spacciati per sapienze.

La Lucania ha bisogno di un abbraccio “barbarico”, altrimenti non è popolo, ma sommatoria di residenti, elettori, “iscritti”. Chi immagina il futuro senza un dio – fosse anche un dio dolorosamente assente – si avventura nei territori di quel positivismo che lascia i morenti con in mano un orologio ben congegnato che non segna però nessuna prospettiva storica e spirituale. Questi poveri figli dei luoghi comuni della modernità si compiacciono molto di come si possa fabbricare una pistola di ultima generazione, ma ignorano che l’uso finale di questa “creazione” sarà puntarsela alle tempie, in una solitudine che agghiaccerà come la peggiore delle punizioni.

Solo nella povertà – nell’accarezzarla quotidianamente come condizione necessaria – c’è la possibilità della fraternità. Eppure questi pseudo-modernisti politicanti anti-leviani non si rendono conto che quello sviluppo che invocano in maniera pappagallesca come rito apotropaico non si realizza proprio perché non hanno compreso che nei lucani – nella loro anima profonda, antica, saggia d’una saggezza non solo cristiana ma anche pre-cristiana – c’è una domanda perentoria di passato, di spiritualità, di senso, di fraternità, di ricca solitudine. E dunque di speranza.

Purtroppo, caro Corona, stiamo permettendo di fare politica ai soli politici. Ma il potere non coinciderà mai con la verità, con la sperdutezza, con la fraternità, con quei “valori” che ci rendevano migliori anche con le pezze al culo.

Vede, Emilio Colombo è stato l’artefice di una Lucania che voleva perentoriamente uscire dalla povertà e dal sottosviluppo. Ma al suo funerale, l’altro giorno, non c’era nessuno. E sa perché non c’era nessuno? Per due motivi: perché i lucani non cercano sviluppo ma senso, fraternità e appartenenza, e poi perché “i figli” di Colombo (la generazione di attuali politicanti) sono così disprezzati che inconsciamente i lucani hanno fatto questo semplice ragionamento: la bontà dei padri, se c’è, si vede nella bontà dei figli. E evidentemente quella bontà non l’hanno vista, nei suoi “figli”.

Purtroppo la modernità illude che la morte sia arginabile. Un grande popolo, invece, è sempre un popolo che vive in confidenza con la morte, e vive ogni giorno con l’assillo del crepacuore, con l’ansia terminale di stare nella vita calda. Cos’altro c’è, nella vita, al di fuori della generosità e dell’intelligenza? A nulla però serve un’intelligenza senza bontà.

La Lucania è diventata una terra di pessimi mercanti e di depressi rancorosi, di parassiti pubblici e di intellettuali velleitari senza dolore, senza ferite, senza lingua. In Lucania non mancano le migliori attrezzature per somministrare la chemioterapia, ma nessuno sa più dire una sola parola sul perché la vita finisca ed è così fragile. Nell’epoca dei tweet e della comunicazione culturale, il mutismo regna sovrano. Non siamo più un popolo, ma solo individui e famiglie in cerca di un passatempo e di una “sistemazione”, di una “sicurezza” (ma quale vita è al sicuro?). Un popolo piccolo, ma tale perché si sente grande.

Ora ci saranno le elezioni regionali e centinaia di politicanti diranno che bisogna fare quello e quell’altro per lo sviluppo della Lucania. Ma l’obiettivo è sempre lo stesso: uno scranno ben retribuito. Ma, tornando a casa, il popolo sentirà ancora una volta di non vedere né il passato né il futuro. E senza la prospettiva di dio – anche in absentia – la vita è assurda. E dunque perché amare la Tradizione? Ecco, glielo dico con grande semplicità: perché in assenza di fede ci si affida alla fede degli altri, dei padri e delle madri morte. Perché far finta che non si appartiene alla terra dei padri? Se dio esiste almeno per qualcuno, a quel qualcuno noi dobbiamo affidarci con umiltà e speranza. Per questo la storia è territorio di estrema ricchezza. A noi, dunque, tocca progettare e riprogettare il passato, non il futuro. Nel futuro c’è solo vanità, twitter e irrealtà. Al punto che diventeremo uno slum di anime morte, colme d’odio e di insoddisfazione, le une armate contro le altre. Altro che superare il levismo! Qui bisogna assolutamente superare questa sottocultura modernista! Ma non bisogna temere di essere quel che si è: fragili, con corpi nudi e osceni, anime spaventate, persone divorate da angosce, nostalgie, rabbie feroci per la propria imperfezione.

Se non ritorneremo a casa – nel nostro inconscio antico – saranno anni tristi e infelici, muti, senz’amore, senza corporalità, senza furore. I lucani si ridurranno ad applaudire un mesto cortometraggio, a lavare la macchina la domenica, a spolverare casa, a mendicare un lavoro a un assessore regionale, a farsi fare la chemioterapia al Crob con in testa la propaganda che dice che bisogna “superare il levismo!”, ignorando che quella civiltà sapeva dare un senso a tutto, non fosse altro che non la dignità, che noi tutti abbiamo perduto.

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