X
<
>

Condividi:
3 minuti per la lettura

POTENZA – Come un maestro Antonio Cossidente gli avrebbe insegnato la maniera di «affrontare i processi con più sicurezza e serenità». Da falso pentito, s’intende. E come uno scolaro avido di conoscenze l’ex boss dei basilischi gli avrebbe chiesto della mala della “sua” Reggio Calabria, per provare a entrare come super-teste nei processi più importanti in riva allo Stretto. 

E’ quanto sostiene Nino detto “il nano” Lo Giudice l’ex collaboratore di giustizia della Dda reggina che a giugno si è allontanato dalla località segreta dov’era ospitato assieme alla moglie e ha ritrattato in un video le sue dichiarazioni. A distanza di due mesi Lo Giudice ha rincarato la dose attaccando tutto il sistema dei pentiti. Così nel memoriale diffuso venerdì mattina a giornali e avvocati calabresi ha chiamato in causa anche l’ex padrino della calciopoli rossoblu e del misterioso omicidio Gianfredi. Una storia, la sua, perlopiù confinata in Basilicata, come quella che ha dato il “la” all’inchiesta dell’Antimafia potentina che a novembre ha costretto alle dimissioni il vicepresidente della giunta regionale Agatino Mancusi (Udc), e a ottobre lo vedrà davanti al gup con l’accusa di concorso esterno assieme al segretario del Consiglio regionale nonché presidente della Commissione lucani all’estero Luigi Scaglione (Popolari Uniti),  il re delle preferenze del consiglio comunale potentino Roberto Galante (Misto), e l’ex assessore al bilancio del capoluogo Rocco Lepore (ex Udeur poi Fi) imputato per l’incendio della porta dello studio di un suo compagno-rivale di partito. Ma nei verbali di Cossidente ci sono anche i traffici di cocaina sull’asse Potenza-Africo Nuovo con personaggi dai nomi altisonanti come Pietro Morabito, e i retroscena di omicidi illustri come quello di Salvatore Cordì, il padrino di Locri ucciso a Siderno nel 2005 nell’ambito di quella che secondo gli inquirenti reggini sarebbe stata una vera e propria faida tra la cosca omonima e i rivali del clan Cataldo. Di qui la richiesta di sentirlo come testimone anche in questi processi.

Lo Giudice è stato condannato di recente a 6 anni grazie ai benefici riservati ai collaboratori di giustizia, per l’attentato compiuto nel gennaio 2010 contro la Procura generale reggina, di quello dell’agosto successivo ai danni dell’edificio in cui abita il procuratore generale di Reggio, Salvatore Di Landro, e dell’intimidazione ai danni dell’allora procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone, con il ritrovamento di un bazooka a poche centinaia di metri dal palazzo della Dda. Dice di aver incontrato Cossidente nella sezione riservata del carcere di Rebibbia, a Roma. A suo dire una fucina di «tragedie», che sarebbero racconti studiati per riscontrarsi reciprocamente e incastrare la vittima prescelta, dove i collaboratori di giustizia verrebbero mandati apposta per incontrarsi e concordare le loro versioni dai magistrati che li gestiscono. «Era una struttura dove ogni collaboratore si confrontava con l’altro, e le storie si intrecciavano quasi sempre in silenzio, l’uno era fonte di informazioni dell’altro e le tragedie prendevano la forma giusta per non essere smontate da nessuno».

Cossidente gli sarebbe apparso come uno «molto preparato a livello criminale con una “favella” che non faceva una piega» e sarebbe stato lui a insegnargli «le regole della ‘ndrangheta, come le formule e tutto quello che necessitava sapere sulla struttura di essa, così per affrontare i processi con più sicurezza e serenità». D’altra parte l’ex boss della mafia lucana avrebbe cercato notizie sui processi reggini chiedendogli di «tirarlo in qualche modo per entrare a testimoniare contro i De Stefano e tanti altri». Un tentativo fallito, secondo Lo Giudice, perché lui non ne avrebbe saputo nulla. Ma in realtà in alcuni di quei processi Cossidente sarebbe entrato lo stesso.

l.amato@luedi.it

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE