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VIBO VALENTIA – Un clan espressione di quella «’ndrangheta sofisticata» egemone nel Vibonese. Mai trascinato nelle aule di giustizia, mai riconosciuto con sentenza passata in giudicato. Clan di ultima generazione, capace di costruire, attraverso una vasta rete di faccendieri, fiancheggiatori e prestanome, una holding imprenditoriale che partendo dalla Calabria avrebbe esportato gli affari fino in Lombardia, passando per la Città eterna. Quello dei Tripodi di Porto Salvo e Vibo Marina, disse dopo la maxiretata il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli, «faceva della zona grigia propria forza». Indagine tosta, tra le prime ad assestare un colpo forte – sulla scorta di elementi indiziari di una certa pregnanza – ad un livello diverso da quello meramente associativo e militare caratteristico della ’ndrangheta tradizionale. Il 23 maggio scorso le sirene di carabinieri e finanzieri: 14 ordinanze di custodia cautelare in carcere, 6 ai domiciliari, altri 24 indagati a piede libero. Gli atti svelavano i rapporti del clan anche con gli esponenti di una massoneria borderline, le ingerenze negli appalti per l’emergenza alluvionale vibonese e le mire sulla ricostruzione post-terremoto in Abruzzo. 

Le indagini, adesso, sono chiuse. Diverse posizioni, tra le 44 persone originariamente indagate, sono state stralciate. Entrano in scena, così, nuovi indagati: altri prestanome del clan e imprenditori che con la loro condotta avrebbero agevolato il clan del presunto boss Nicola Tripodi. Tra gli altri spiccano in particolare i catanzaresi Sebastiano e Eugenio Sgromo, parti offese secondo alcuni capi d’accusa, che chiamati a raccontare agli inquirenti i fatti di cui erano a conoscenza avrebbero riferito circostanze mendaci al pubblico ministero, ciò al fine – è la contestazione nei loro confronti – di aiutare gli uomini del clan ad eludere le investigazioni. 
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