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IO la porterò sempre nel cuore quell’immagine. Quell’enorme serpentone di persone, che cantava di briganti e di orgoglio lucano. Quell’immagine che poi è stata utilizzata da tutti quelli che volevano farsi un po’ di facile pubblicità. 
Ma non quella domenica insolitamente calda (o almeno io la ricordo così, chissà se è vero), non quella domenica in cui ci siamo tutti davvero sentiti orgogliosi di essere lucani. E non capita spesso. Ma quel giorno, così come nei giorni precedenti, c’era la gente comune a parlare, ad alzare la testa. A partecipare e a dire a uno Stato che spesso di noi si dimentica: “tu qui non puoi fare tutto quello che ti pare, questa terra è la nostra”. Qualche mese dopo arrivò anche la “primavera di Melfi”, con gli operai della Sata che per la prima volta si rifiutarono di essere trattati come pezzi di ricambio. Poi anche la dura protesta contro l’elettrodotto Santa Sofia a Rapolla. 
Lo confesso, per qualche mese ho vissuto nell’idea che tutto stava per cambiare. Ho sinceramente creduto – da cittadina lucana prima ancora che da giornalista – che quei mesi sarebbero stati la nostra rinascita. Da quel momento – pensavo – nessuno avrebbe più avuto il coraggio di trattare la gente lucana senza rispetto. Nessuno avrebbe più avuto il coraggio di venire qui e prendersi tutte le risorse senza lasciare nulla. Nessuno. 
E invece le cose sono andate un po’ diversamente. Quei timidi segnali di ripresa si sono sciolti velocemente, senza lasciare molte tracce. E in dieci anni abbiamo perso speranza e voglia di partecipare, abbiamo smesso anche di provare ad alzare la testa. 
Per questo quell’immagine la porterò per sempre nel cuore: perchè davvero voglio sentirmi orgogliosa di essere cittadina di questa terra così difficile. E magari un giorno, mostrando la foto ai miei figli emigrati in altri paesi potrò dir loro: “in fondo ci abbiamo provato a cambiare le cose. Non è stato sufficiente, ma allora ci abbiamo davvero creduto”. 
Antonella Giacummo 
a.giacummo@luedi.it

IO la porterò sempre nel cuore quell’immagine. 

 

Quell’enorme serpentone di persone, che cantava di briganti e di orgoglio lucano. Quell’immagine che poi è stata utilizzata da tutti quelli che volevano farsi un po’ di facile pubblicità. Ma non quella domenica insolitamente calda (o almeno io la ricordo così, chissà se è vero), non quella domenica in cui ci siamo tutti davvero sentiti orgogliosi di essere lucani. E non capita spesso. 

Ma quel giorno, così come nei giorni precedenti, c’era la gente comune a parlare, ad alzare la testa. A partecipare e a dire a uno Stato che spesso di noi si dimentica: «tu qui non puoi fare tutto quello che ti pare, questa terra è la nostra». 

Qualche mese dopo arrivò anche la “primavera di Melfi”, con gli operai della Sata che per la prima volta si rifiutarono di essere trattati come pezzi di ricambio. Poi anche la dura protesta contro l’elettrodotto Santa Sofia a Rapolla. 

Lo confesso, per qualche mese ho vissuto nell’idea che tutto stava per cambiare. Ho sinceramente creduto – da cittadina lucana prima ancora che da giornalista – che quei mesi sarebbero stati la nostra rinascita. Da quel momento – pensavo – nessuno avrebbe più avuto il coraggio di trattare la gente lucana senza rispetto. Nessuno avrebbe più avuto il coraggio di venire qui e prendersi tutte le risorse senza lasciare nulla. Nessuno. 

E invece le cose sono andate un po’ diversamente. Quei timidi segnali di ripresa si sono sciolti velocemente, senza lasciare molte tracce. E in dieci anni abbiamo perso speranza e voglia di partecipare, abbiamo smesso anche di provare ad alzare la testa. Per questo quell’immagine la porterò per sempre nel cuore: perchè davvero voglio sentirmi orgogliosa di essere cittadina di questa terra così difficile. 

E magari un giorno, mostrando la foto ai miei figli emigrati in altri paesi potrò dir loro: «In fondo ci abbiamo provato a cambiare le cose. Non è stato sufficiente, ma allora ci abbiamo davvero creduto». 

a.giacummo@luedi.it

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