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POTENZA – Finiranno in Cassazione i veleni della questura di Potenza. E’ del 7 marzo il ricorso del sostituto procuratore generale Renato Liguori contro la sentenza che a gennaio ha assolto il commissario della sezione anticrimine e segretario regionale del Siulp Antonio Mennuti dall’accusa di aver diffamato l’ex capo della Mobile del capoluogo Luisa Fasano. 

La vicenda ruota attorno a un volantino a firma di Mennuti affisso nella bacheca sindacale al quinto piano della Questura il 9 ottobre del 2007.

Il giorno prima era andata in onda una clamorosa puntata di Chi l’ha visto? dedicata all’intreccio tra alcuni misteri lucani come la “scomparsa” di Elisa Claps e l’inchiesta sulle Toghe lucane del pm Luigi De Magistris, che ha visto coinvolta – tra gli altri – anche la stessa Luisa Fasano, prima  che le accuse nei suoi confronti finissero in archivio.

A destare particolare scalpore erano state alcune  intercettazioni “recitate” in cui l’allora capo della mobile avrebbe dato delle «sfighe» ad alcune poliziotte, delle «beduine» a dei magistrati non meglio precisati dell’antimafia di Salerno oltre ad esternare «valutazioni non lusinghiere sulla famiglia della defunta Elisa Claps». Così la dottoressa Angela D’Amelio, estensore della sentenza di secondo grado, ricostruisce la trasmissione che ha scatenato lo scontro.

Nel volantino “incriminato” Mennuti, in qualità di sindacalista, chiedeva l’allontanamento del dirigente dall’incarico che all’epoca ancora ricopriva, prima del suo trasferimento a Matera dov’è tutt’ora in servizio. In più esprimeva una serie di valutazioni negative sull’operato del suo ex capo difendendo chi, come lui, era stato oggetto delle sue critiche telefoniche.

Per il pm Claudia De Luca le affermazioni contenute in quelle due paginette avrebbero configurato a tutti gli effetti una diffamazione «in quanto lesive del decoro professionale» di Luisa Fasano, oltre che della funzione rivestita». Il passaggio preso di mira è stato, in particolare, quello in cui veniva accusata «di aver leso la credibilità della Polizia di Stato, facendo trapelare notizie della propria vita familiare e adoperando espressioni censurabili che avevano screditato l’intera istituzione».

In primo grado il dibattimento si era concluso con la richiesta di assoluzione per Mennuti avanzata dal pm Sergio Marotta, erede il fascicolo della De Luca, ma il giudice Giovanni Conte ha accolto la richiesta avanzata dal legale di Luisa Fasano, Tuccino Pace, condannando il segretario Siulp a 300 euro di multa.

La decisione della Corte d’appello presieduta da Francesco Verdoliva, assistito a latere da Pasquale Materi e Rosa D’Amelio, ha poi rovesciato quella sentenza accogliendo la tesi dell’avvocato Donatello Cimadomo sul legittimo esercizio del diritto di critica sindacale. Solo che il sostituto procuratore Liguori non si è dato per vinto. Di qui il ricorso alla Suprema Corte.

«Una disamina meno frettolosa del testo incriminato – scrive Liguori censurando la sentenza d’appello – avrebbe, al contrario, consentito di individuare a pieno titolo la sussistenza del delitto di diffamazione in danno della parte civile, ricorrendone tutti i presupposti di legge. La Corte di merito ha, al contrario, omesso di considerare che il volantino in questione è essenzialmente basato sull’enfatizzazione di una serie di attacchi diretti e personali nei confronti del soggetto passivo alla stregua di altrettanti “argomenta ad hominem”».

Tra le sue considerazioni il sostituto procuratore evidenzia anzitutto che «è lo stesso imputato Mennuti – prosegue il sostituto procuratore – ad affermare nell’incipit dello scritto che le questioni che andava a trattare apparivano di “carattere personale”, con ciò evidenziando la piena consapevolezza o volontà di orientare il contenuto dello scritto anche e soprattutto sul piano privato, oltre ogni valenza di natura sindacale».

Laddove Mennuti spiega che prima di allora non aveva voluto «rispondere alle cattiverie che la dottoressa Fasano» perché le questioni «potevano apparire di carattere personale». Questo il testo esatto del volantino.

«La terminologia cui l’imputato ha fatto ricorso – insiste Liguori – e finanche le argomentazioni esplicitate dal volantino tralavalicano i confini della “stretta necessità dei termini denunciati”».

In conclusione quanto affisso nella bacheca della questura sarebbe «da ritenersi diffamatorio anche in relazione alla circostanza che il suo precipuo scopo è quello di esprimere un attacco alla figura morale del criticato con ciò ledendone la dignità e la reputazione».

l.amato@luedi.it

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