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POTENZA – Molte donne ancora oggi si trovano a dover rinunciare a qualcosa. A chi dice che ormai è diventato semplice per una donna unire la vita privata con quella lavorativa e con le proprie passioni dico no, mi dispiace ma è ancora molto difficile. La società ancora si aspetta da noi quelle cose “tipicamente femminili”. Chi vuole andare avanti, farsi strada, portare avanti progetti e ambizioni si dovrà scontrare ancora con questi problemi. Dover stare sempre in giro, fare tardi, non esserci in alcuni periodi, sono cose che ad un uomo vengono perdonate ma ad una donna no.
A volte viene la voglia di rinunciare, ma poi quando ti ritrovi davanti ai risultati, quelli veri, capisci che non è giusto. Non è giusto scegliere. Non è giusto abbandonare. Semplicemente è giusto comprendere e andare avanti.
Non mi piace parlare o fare distinzione di sesso ma, in una società come la nostra e in un territorio lento e maschilista come il nostro, purtroppo, dobbiamo trovarci ancora a lottare con queste distinzioni. Lo dico perché negli ultimi mesi ho compreso ancora di più quanto sia difficile essere donna in Basilicata. Lasciamo stare il femminismo e le questioni che non hanno alcuna rilevanza; parlo proprio di essere quello che siamo, rappresentare un qualcosa ormai consolidato nella nostra società. Noi donne possiamo essere tante cose eppure non possiamo mai essere qualcosa in più dell’uomo che sta al nostro stesso posto.
Durante la campagna elettorale mi sono accorta che tra le tante cose incredibili che ho visto, quella della preferenza di genere era tra le più incomprensibili. Un’offesa, secondo me, all’intelletto di tutte le donne. Primo perché non parliamo di reale rappresentanza di genere; secondo perché ogni singola donna non era libera e sola, ma sempre “portata” e rappresentata da qualcuno. Allora mi chiedo, a cosa serve tutto questo? A cosa serve essere donne indipendenti se poi per andare avanti abbiamo bisogno del “ticket”? Nelle stanze del potere si parla solo con voce maschile, ai tavoli delle decisioni sono seduti gli uomini e le poche donne che ci sono spesso si ritrovano a non essere così importanti, essendo in minoranza. Viviamo in una Regione dove il Consiglio Regionale è formato solo da uomini. Solo da uomini. Una situazione che non dovrebbe esistere in alcun paese moderno. Ma la colpa non è delle preferenze, la colpa sta a monte, quando si formano gli organi e i partiti. E la Regione cosa fa su questo? La discussione sulla modifica dello Statuto è bloccata non perché si discute di modifiche sulle pari opportunità ma perché devono capire cosa è meglio per il cambio della giunta. Non sia mai che poi ad uno dei nostri consiglieri venga tolto un ruolo per darlo ad un altro. E noi? Stiamo a guardare e girovaghiamo nei corridoi chiedendo di essere ascoltate.
Chi ci governa prende decisioni per noi, anche quelle che riguardano il nostro corpo, e sceglie per noi, ad esempio le donne che ci rappresentano negli Organi pubblici. E tutto questo senza ascoltarci. O meglio, senza ascoltare ogni voce, ma ascoltando solo alcune voci. E il risultato di tutto questo sapete qual è? Alla fine, riescono a metterci l’una contro l’altra. Invece di camminare insieme per avere di più, ci dividiamo a metà percorso per diventare strumenti di una lotta tra poltrone. E questo è un grande fallimento. Un fallimento per noi donne, un fallimento per la storia delle donne. Forse è arrivato il momento di pensare ad una nuova “Basilicata Rosa”. Basta tenersi per sé le cose: ormai abbiamo imparato che la maggior parte dei progetti che vanno a buon fine sono quelli partecipati. Ma non partecipati in piccoli gruppi che fanno salotto e fanno finta di condividere progetti con tutti; per partecipati intendo progetti dalla comunità. Ci sono delle pratiche importanti in Italia e nel mondo: dalla conciliazione lavoro famiglia all’empowerment femminile nelle amministrazioni. E noi cosa facciamo? Stiamo ancora a guardare. Gli spunti sono tanti, ne prendo qualcuno ad esempio: la possibilità di creare spazi di co-working dedicati alle mamme lavoratrici, con ampi spazi per il gioco e personale dedicato; oppure penso ad Audit Famiglia&Lavoro, che permette la certificazione di enti e imprese che introducono una giusta politica di gestione del personale orientata alla famiglia; o anche una buona politica commerciale comunale, che permetta una rotazione degli orari lavorativi e preveda aperture ad hoc per le donne lavoratrici; e infine la così discussa educazione sentimentale nelle scuole, tappa fondamentale per la crescita delle nuove generazioni (che accosterei ad un percorso obbligatorio di educazione civica). Sembrano cose banali, ma non lo sono.
Mi rivolgo adesso al Presidente Pittella.
Caro Presidente, apriamo ad un dialogo concreto e partecipativo con le donne. Ma non un dialogo di facciata. Lanciamo un progetto condiviso che possa essere modificato, aggiornato e discusso da tutte le donne. Iniziamo a capire, dalle più giovani alle più anziane, cosa manca in questa Regione. Saranno tanti gli spunti. Proviamo ad includere e non a dividere. Nell’era dell’Ict gli strumenti sono infiniti per fare una cosa del genere: magari una piattaforma che permetta di partecipare ai lavori o offrire degli spunti di riflessione su temi importanti. Uno spazio che faccia sentire le donne protagoniste in una regione dove questo protagonismo manca.
Partiamo dalla Legge Regionale. I temi da toccare e da inserire sono tanti: il sistema di rappresentanza, la cittadinanza di genere, il rispetto delle differenze, la salute e il benessere femminile, la prevenzione alla violenza di genere, il lavoro e l’occupazione femminile, l’imprenditoria femminile, la conciliazione i metodi e gli strumenti del sistema paritatio. Partiamo da qui: facciamo in modo che ogni donna possa dire la sua sul tema, magari proporre idee. Iniziamo a guardare le buone pratiche del Nord Europa e del Mondo.
E’ arrivato il momento di una governance territoriale che punti alle pari opportunità, e non solo nei giorni in cui ci ricordiamo delle tante violenze e dei tanti dolori che le donne hanno sofferto. Ogni giorno bisogna parlare di partecipazione e genere, ma su cose concrete. Non posso pensare di bussare alla porta di qualcuno per tutta la vita aspettando che quel qualcuno mi dia ciò che mi spetta. Non posso pensare di dover rinunciare ad avere una famiglia perché ho scelto di lavorare 20 ore su 24. Non posso pensare che, invece, se scelgo di avere un figlio dovrò sempre cercare la nonna o il nonno di turno che possa tenerlo con sé. E non posso pensare di agire da donna ma in nome e per conto degli uomini.
Io voglio poter decidere sui miei diritti e voglio farlo senza sentirmi sbagliata. E senza essere chiamata “femminista” o in altri modi che non sto qui a dire. Non è femminismo questa è vita reale. E nella vita reale io devo poter giocare ad armi pari, senza differenze. Ad un certo punto viene da chiedermi: ma sarà mica che questi uomini hanno paura di “liberare” le donne?

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