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SE NE va un pezzo, un grande pezzo, della storia del teatro italiano ed europeo.
Ci lascia un visionario della poesia teatrale, colui che inventò lo spazio scenico e che con Giorgio Strehler seppe pensare ed agire per un teatro di civiltà e di umanità. Colui che ha fortemente contribuito a fare della cultura un punto centrale nella nostra vita, nella vita di una nazione, e più ancora quella della manifestazione artistica nella vita dell’uomo contemporaneo volto inesorabilmente in una sempre maggiore solitudine e verso una sempre è più totale alienazione.
Ciò che ci lascia Ronconi è comunque un’occasione ricca e ineccepibile per entrare nel vivo dell’opera di un grande e, nello stesso tempo della società e della civiltà di tutto il novecento, non solo italiano. E’ morto in ospedale, al Policlinico di Milano, nel pomeriggio di ieri. Non ce l’ha fatta a superare la brutta polmonite che lo aveva colpito a seguito di questa influenza che ha messo a letto mezza Italia. Dopo la caduta di questa estate che lo aveva costretto ad un lungo riposo, andava ripetendo, a chi gli telefonava e chiedeva come stesse, “per fortuna mi sento ancora forte e pronto per la prossima stagione”
Ronconi aveva esordito come attore accanto a Vittorio Gassman. Erano i tempi in cui al pubblico piacevano i belli James Dean e Corrado non lui che era timido e chiuso.
Recita ancora per qualche anno. Poi la regia lo rapisce, lo ammalia come un’innamorata alla quale occorre donarsi totalmente. Inizia a lavorare come regista nel 1963, con la compagnia di Corrado Pani e Gianmaria Volonté. Ma il suo primo capolavoro nel 1969 è l’Orlando furioso di Ariosto, nella versione del poeta e critico Edoardo Sanguineti: uno spettacolo immaginifico per chi lo vide, con gli attori che sembravano volassero sulle parole scandite e poi recitate e poi ancora interpretate. Un lavoro massacrante che la RAI. a quei tempi avida con le innovazioni, mise in scena dopo le 23,30 se non ricordo male. Inizia così un percorso artistico, sempre più sganciato dal mercato e sempre più legato ad un’arte propria, indipendente. E’ un lavoro di artigianato il suo. Un’opera d’arte figurativa, oppure un poema quello che mette in scena, mai condizionato da nulla. Prendeva forma il visionario della drammaturgia: c’è lo schema imposto dal testo, c’è l’autore e l’azione ma poi sopraggiungeva il suo temperamento, la sua impressione e sviluppo della regia. Qui la libertà creava lo sconvolgimento razionale della scena. Qui faceva convergere i suoi spiriti creativi e sovversivi. Qui venivano coniugati parola, movimento, canto e scenografie. E il lavoro dell’attore primeggiava trovava la sua collocazione.
Di Luca Ronconi andrebbe ricordato tutto, perché tutto è stato importante e decisivo per l’evoluzione del teatro e del lavoro dell’attore: dal suo laboratorio teatrale a Prato, alla indimenticabile messa in scena delle tre sorelle di Cechov. In questo spettacolo la Melato è costretta ad un trucco spaventoso, la fa invecchiare di cent’anni. Era una delle sue preferite insieme a Umberto Orsini, Riccardo Bini, Massimo Popolizio, Massimo De Francovich, Paolo Pierobon. Oltre ad una intera generazione di altri attori e aiuti e tecnici che negli anni che lo hanno affiancato si sono sentiti come alla Sorbona di Parigi.

Con gli anni ‘80 arrivano finalmente anche i riconoscimenti ufficiali (i suoi rapporti con l’establishment fino a questo momento non sono stati affatto sereni) al suo lavoro di regista e al suo ruolo fondamentale nel teatro europeo: viene nominato direttore allo Stabile di Torino dove resterà fino al 90 firmando tra i tanti un altro capolavoro, Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus al Lingotto.
Ed il ricordo più bello che ho quando la giuria di Marateateatro nel 1988 gli conferì il giusto riconoscimento per il lavoro svolto. Era un’altra era. Allora Maratea era il secondo appuntamento culturale dopo Taormina Arte e Raidue dedicava, seppure alle undici di sera un’ora di spazio.
In quell’occasione i migliori e più importanti operatori teatrali europei presenti, gli tributarono una vera ovazione proprio per la sua messa in scena al Lingotto di Torino. Memorabile il suo intervento nelle giornate di studio, dove sostenne che “noi uomini del teatro non dobbiamo mai stancarci di chiedere alle istituzioni di svolgere, sempre meglio, quella funzione di scelta di responsabilizzazione volta a suscitare e far scattare un’utopia che è l’espressione della poetica teatrale. Di suggerire o creare desideri invece che bisogni. Mi auguro che il mio ed il vostro lavoro spero sia destinato a continuare. Se esiste sulla terra qualcosa di miracoloso questo è il teatro”.
Con la scomparsa di Giorgio Strehler, Ronconi approda al Piccolo Teatro di Milano. Sfata così le dicerie di un antagonismo sfrenato con Strehler. Subito la sua impronta “ardita” si sente. Il primo anno mette in scena un testo non teatrale come Lolita di Nabokov. Nel 2002 sempre al Piccolo dirige in una ex fabbrica, Infinities, tratto da un testo scientifico del cosmologo John David Barrow: cinque spettacoli in contemporanea. Una vera e propria impresa ardita e da vedere come in un labirinto organizzato con logica matematica. Una cosa incredibile. Dal Piccolo non si staccherà più, anche quando in anni recenti Ronconi lascerà la carica di direttore artistico per restare il regista stabile e consulente artistico del teatro. A Milano lascia i suoi allestimenti della sua maturità artistica dove l’euforia sperimentale diventa più pacata ma non meno forte e determinata che in passato.
Difficile qui dire quanto il suo stile e la sua poetica siano stati innovativi e rivoluzionari, quanto le sue scelte abbiano profondamente mutato il panorama teatrale contemporaneo. Nessuno come lui sapeva leggere un testo e le sue prove a tavolino restano memorabili per coloro i quali hanno avuto la fortuna di parteciparvi. Ronconi si è spinto oltre il concetto di ricerca. Ha forzato ogni cosa del teatro. Fino all’inverosimile: ne ha dilatato i tempi, ha praticato partiture impossibili riuscendo a ribaltare i termini critici di un Ronconi quasi sempre noioso. Ora la sua genialità ci lascia. Questo alfiere della cultura italiana lo ricorderemo come un padre autorevole, severo schivo e geniale. Ci ha offerto sogni e visioni oniriche da incubo, strascichi polemici per chi troppe volte lo ha discusso per partito preso. Sicuramente oggi lo rimpiangerà. Con Ronconi credo finisce un mondo. Si chiude uno spettacolo memorabile. Proprio come nello spettacolo I giganti della montagna di Pirandello messo in scena dal suo amico Strehler. Qui, senza parole, senza commento di musica si conclude lo spettacolo e gli avvenimenti raccontati. Vi si vedono i segni della poesia e della fragilità del teatro osservato dalla parte degli attori, e alla fine un sipario di ferro, a mò di lama cala facendo a pezzi la carriola della vita. La carriola con cui i comici avevano portato fino in cima alla montagna la loro esausta primattrice.

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