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Michele Abbaticchio, sindaco di Bitonto

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«SIAMO qui, tutti i giorni a combattere. Ma lo Stato ci stia accanto e i cittadini facciano comunità per isolare questo fenomeno». Michele Abbaticchio è da nove anni sindaco di Bitonto, importante comune alle porte di Bari. E di aggressioni fisiche e verbali, di minacce e di atti persecutori ne ha da raccontare. Gli stessi finiti nella non lusinghiera classifica di Avviso Pubblico, il decimo report che piazza la Puglia ai primi posti per il numero di intimidazioni ai danni degli amministratori pubblici. Ben 55 i casi nel solo 2020, 532 nell’arco degli ultimi dieci anni.

Tra emergenza sanitaria e crisi economica, quanto è difficile fare oggi il sindaco?
«Noi siamo quelli che restano in frontiera e che subiscono di tutto. Durante il lockdown io e altri colleghi siamo stati duramente attaccati dai nostri cittadini. Perché mentre il governo chiudeva questa o quella attività per la paura dei contagi, c’era una fetta di popolazione che se la prendeva con noi. Nel mio caso ha subìto l’aggressione fisica di un acconciatore perché mi riteneva responsabile della chiusura della sua attività e non capiva perché i supermercati fossero rimasti aperti. Questa situazione di esasperazione e di paura ha sicuramente aumentato le distanze tra i cittadini e le autorità. Come dico sempre: siamo quelli diventati “più toccabili”. E quando si è dominati dalla rabbia è più facile prendersela con un sindaco».

Come se lo spiega?
«L’attuale sistema elettorale e le scelte dei partiti calate dall’alto hanno svuotato le comunità di parlamentari espressione dei territori. Se candido Tizio nel collegio di Bari, ma lui risiede a Lecce, è chiaro che il cittadino perda il suo interlocutore. E l’unico rappresentante in grado di ascoltarlo resta il sindaco».

Quali sono stati i momenti più difficili di questi suoi nove anni da primo cittadino?
«Penso alle minacce che lo scorso anno io e un assessore abbiamo subìto da un tifoso che pretendeva dei lavori immediati allo stadio per la promozione del Bitonto calcio; penso alle auto dei miei collaboratori e dei miei dirigenti fatte saltare in aria. Penso a quella volta in cui mi hanno tagliato le ruote dell’auto perché avevo organizzato una manifestazione contro le mafie o quel pazzo che minacciava le mie assistenti sociali con l’accetta».

Si è mai sentito solo?
«Certe volte sì, ma la voglia di lavorare bene per la mia comunità ha vinto su tutto. Ai miei cittadini dico sempre: riprendiamoci tutti gli spazi pubblici. Solo così possiamo isolare le mafie e l’illegalità».

Dal rapporto di Avviso Pubblico, associazione di cui lei è anche vice presidente nazionale, emerge un boom di minacce via social. Insomma, la criminalità c’entrerebbe poco.
«Non è vero. Le mafie fomentano anche sui social questo clima d’odio perché, assieme a una buona dose di populismo, convincono i cittadini dell’inaffidabilità dei politici. Per loro tutti i politici sono ladri e corrotti e quindi lo Stato non serve. Bisogna affidarsi a loro per le regole sociali».

Lei ha subìto intimidazioni social?
«Certo. Ricordo ancora il post di una donna “sei un morto che cammina”. Qualche ora prima avevo fatto allontanare un pregiudicato, agli arresti domiciliari, che con la sua moto sgommava sulla scalinata del teatro comunale».

Quale consiglio si sente di dare ai suoi colleghi, specie a quelli alla prima esperienza amministrativa?
«Di non sentirsi soli e di fare rete con i propri cittadini. I sindaci però andrebbero coltivati e tutelati meglio dal legislatore. Non possono più essere le cerniere della disperazione».

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