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Si è molto discusso dell’opportunità della scelta di pubblicare il video della morte di Mango in diretta sul palco di Policoro. È una scelta rispettosa della deontologia della professione giornalistica? Il direttore dell’Huffington post, Lucia Annunziata, ha spiegato i motivi della pubblicazione. Tra l’altro, qualche ora fa, ha pubblicato il video della morte del ministro palestinese Ziad Abu Ein.

Cosa si è messo in discussione? Tutti: il principio del rispetto della persona. Ieri Carlo Felice Dalla Pasqua offriva spunto di dibattito a partire da due ragionamenti opposti, quello di Vittorio Zambardino e quello di Arianna Ciccone. Io mi sono espressa e ribadisco la mia convinzione che va oltre l’istinto della giornalista abituata a anni di cronaca nera.

Chi sostiene che quelle immagini, l’ultimo momento della vita di un uomo, non andavano diffuse lo fa sostenendo fondamentalmente due ragioni: la prima è che quelle immagini non sono una notizia o non aggiungono nulla alla notizia della morte. La seconda è il dover essere rispettosi da una parte della dignità umana di chi muore, dall’altra della sensibilità di chi guarda.

C’è poi un terzo motivo, un’accusa più biecamente commerciale: voi giornaisti lo fate per qualche clic in più. Un tempo ci dicevano: pubblicate quelle foto per vendere qualche copia in più. Tralascerei quest’aspetto. Sulla fiducia, se mi credete, non me ne sono mai preoccupata (forse dovrei iniziare a farlo).

Vorrei portare un altro punto di vista. Che ha a che fare con considerazioni non saprei quanto etiche. Noi partiamo dal principio dell’accettazione della vita, della forza, del successo ritenendo la morte, il dolore, la malattia scarti dell’immaginazione. Un uomo visto nel suo momento di massima sofferenza contrae la sua proiezione esistenziale, la depaupera, la svilisce. In una parola: è umiliante a vedersi. E ciò che è umiliante a vedersi va nascosto, come anni fa si faceva con i figli down.

Questo, a mio avviso, è il vero motivo per cui reagiamo alla vista della morte: perchè sappiamo che essa ci appartiene e tutta la nostra vita altro non è che una fuga da essa. Noi non governiamo la morte, non di sicuro questo tipo di morte. Guardiamo invece con pietà e slancio d’affetto agli ultimi del mondo affamati e schiavi, perché sappiamo che è un mondo lontano da noi e ne mostriamo le immagini perchè chiediamo che sia fatto qualcosa per loro.

 Non è umiliante la foto di un bambino corroso dalle mosche? Io mi sono sentita male davanti a una fotografia di Salgado. Non ho visto nulla di scandaloso,invece, in quell’accasciarsi naturale di un uomo sorretto dai compagni. La morte è nostra compagna di viaggio. A un certo punto si mette alla guida della nostra vita. Ci vuole coraggio a non averne paura. E nessuno di noi ce l’ha. Noi giornalisti non siamo altro che dei banditori, raccontiamo e ricordiamo quello che accade. Accade la morte. Addio Mango, tornavo la mattina all’alba da Napoli, di corsa in autostrada verso la redazione a Salerno, il mare a un certo punto scompariva per poi riapparire. Sentivo sempre “Mediterraneo”

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