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Il testo che segue è scritto in terza persona, perché quando mi ritrovo al cospetto della grande bellezza della mia terra, perdo ogni soggettività, l’io si diluisce in uno sguardo terzo, discreto e devoto

Proprio quando il lucano all’estero, rientrando nella sua terra d’origine, pensava di riempire pagine su pagine di appunti e riflessioni su quello che avrebbe visto e sentito, proprio quando il contesto si rivelava ideale alla prosa più libera e appassionata, la sua mano si è intorpidita, la sua penna fermata.
Sarà stato il cambio d’aria o d’alimentazione, a volte si dice così, pare che influiscano sulle abitudini quotidiane, eppure questa del lucano all’estero rimane la patria, è la casa dalle porte sempre aperte, odori e sapori che non si dimenticano, a cosa dunque è dovuta tanta inerzia sul foglio?

Più semplicemente, è successo che la scrittura è stata sopraffatta dallo sguardo. Uno sguardo abbondante, sul paesaggio e l’orizzonte, dove si alternano visioni coniche, vulcani della creatività che occupano ogni spazio del quadro visivo proprio nella terra dei coni al contrario, i pozzi dell’oro nero. Nemesi piacevole e inaspettata per molti viaggiatori che, come ha fatto chi ora vi scrive, si sono messi in cammino sulle rotte di un pellegrinaggio lucano, fatto di tappe e rifugi come i pellegrinaggi veri, e che ogni anno si animano nella stagione più bella.
È un viaggio in cui l’unica bussola sono le sirene di un fare tradizionale, oggi riproposto in termini di promozione del territorio e rinnovato nei suoi contenuti, nella capacità di dialogo e attrazione. È tanta la gente che il lucano venuto da fuori incontra sul cammino, mille volti mille accenti, che si conducono leggeri (in tasca) e leggiadri (d’animo) verso le tante stazioni che segnano il passo di questo percorso nei mesi dell’abbondanza che condurranno a un numero da cabala, il 2019. È una mappa complessa che la viabilità regionale (sempre sospesa nell’ibrida concezione di una grande arteria che è anche tratturo) non aiuta. È però una geografia positiva, potremmo quasi definirla una nuova orografia che le mappe di un tempo non riescono più a raccontarci. Una superficie rivisitata che copre quel sostrato ancora solido fatto di sofferenza, disoccupazione, emigrazione, ma che agli occhi del lucano viaggiatore (e forse anche di quello abitante) non appare più così granitico, impermeabile. Gocce di mutamento lo attraversano, radici di un nuovo fermento si insinuano in esso, la primavera porta germogli che nel cuore dell’estate danno frutti abbondanti, nel colore, nella forma. Aria e profumo nuovo che ci fanno dimenticare un certo tanfo stagnante che in alcune valli attraversate ci ha appesantito l’olfatto.

Quelli che lui e gli altri viaggiatori hanno osservato con entusiasmo, il lucano all’estero li chiamerà i Luoghi Ideali dell’Utopia. Non perché non siano realtà tangibili e intelligibili, ma perché hanno una funzione singolare e visionaria: capovolgere un destino abituale che la Storia e i governi paiono averci assegnato perpetuamente, forti anche di un racconto autoctono spesso rinunciatario, atrofizzato sulla mnemonica di un mantra sfugge a ogni secolarizzazione. Un refrain filosoficamente molto più vicino a certe litanie ecclesiastiche che a un atto di liberazione spirituale.
D’estate, in Lucania, succedono tante cose, e il lucano all’estero le ha osservate con attenzione ed entusiasmo. Nella lattea Pisticci, col suo profilo sospeso tra le qasba algerine e i villaggi dell’oltre Tejo lusitano, tanto che Alain Tanner la eleggerebbe a sua nuova “città bianca”, a metà d’agosto si assiste a un brulichio di persone di ogni età, che occupano vicoli e balconi, rampe e scale, si dimenano rincorrendo l’immagine di un sogno fanciullesco, quello che solo il cinema sa regalare. A sorreggere questa macchina ben oliata c’è un esercito di giovani leve che dà l’idea di avere le idee chiare, dimostrando un’etica del lavoro e un rigore organizzativo che pare d’esser in un fiordo, a dispetto delle case bianche. E come ogni esercito anch’esso ha i suoi generali, ma faremmo peccato a chiamarli così, diciamo che sono grandi ispiratori, e tra essi c’è n’è uno che ogni tanto si toglie il cappello ma solo per mostrare la zucca dove nascono intuizioni brillanti, che subito traduce in un discorso lucido e pacato. I lucani all’estero e quelli residenti dovrebbero fare di questo momento un momento di tutti, perché è davvero tra le migliori cose che i ragazzi di questa terra in fermento riescono a proporre, fanno impresa culturale, ma per davvero, senza sbandierare intenzioni smisurate che poi si traducono in uno slogan vuoto. Questi ragazzi sembrano aver capito come non fare il passo più lungo della gamba. Hanno una missione pedagogica di cui devono rendersi ben coscienti.
Altrove, ma non molto distante, si parla alla luna seduti sui calanchi. Un signore venuto da una terra tanto aspra quanto bella, riflessa in quel prisma della meridionalità che tutti ci rappresenta, vi convoglia migliaia di persone, alla luce naturale della notte le conduce a perdersi in quel paesaggio lunare, o a meditare sulla tomba di Carlo Levi, attendendo albe che lui distingue tra “necessarie e consigliate”.

Ha fatto di un posto un tempo di confino il cenacolo in cui fini dicitori discutono di identità e futuro. Ha reso un luogo del nostro passato l’apogeo di uno sguardo diverso sull’uomo e sul paesaggio. A questo signore, e a chi lo aiuta a orientare questa carovana verso un luogo ideale delle utopie contemporanee, il lucano all’estero dice grazie, lo ringrazia per esser venuto fin qui ad ammainare la bandiera bianca che sventolava su questi tetti, e si aspetta che lo ringrazino anche i lucani residenti, quelli che troppo spesso si travestono da «scoraggiatori militanti» (cit.), ma che forse, in fondo, altro non recitano che la vecchia favola della volpe e l’uva. Però, questo lucano d’adozione permetta al viaggiatore un suggerimento fatto col “cuore in mano”: consideri la possibilità di continuare a organizzare il festival con una cifra non necessariamente pari a dieci volte l’attuale contributo istituzionale (alla voce “cachet”), perché la vera sfida in un territorio come questo sta anche nell’esser capaci di fare il massimo con quello che si ha a disposizione. Sotto questo aspetto, la Lucania è una grande scuola: il lucano all’estero si ferma a rifletterci e pensa che potrebbe snocciolare numerosissimi esempi di successo, che vanno ben al di là della proverbiale “arte dell’arrangiarsi”.

C’è però un luogo dell’Utopia che, nel suo peregrinare sulle strade (dissestate) di questo grande granaio, il lucano all’estero avrebbe voluto visitare. Un luogo dell’utopia per eccellenza, tanto da portarne il nome: il museo dell’Utopia. Attenzione, fermi tutti. Un museo dell’Utopia in Basilicata? Per davvero? Il lucano all’estero non resiste alla tentazione e decide di inerpicarsi fin sulla montagna, per raggiungere il villaggio che lo ospita, un paese dal nome soldatesco: Campomaggiore. Qui, nel Settecento, il feudatario locale coltivava il suo visionarismo immaginando una città all’avanguardia in cui migliorare le condizioni del mondo rurale.
Con sua somma sorpresa e dispiacere, però, e nonostante la lunga deviazione, il lucano all’estero (e qualche altro sfortunato viaggiatore) ha scoperto che il museo dell’Utopia nei giorni infrasettimanali apre le porte solo nel tardo pomeriggio. Eppure siamo in estate, riflette a voce bassa il viaggiatore, per non farsi sentire, non vorrebbe apparire scortese. «Una vera utopia è dunque il visitarlo!», pensa osservando con sconforto il cartello. Viaggio a vuoto dunque, se non fosse per il fatto di scoprire un luogo nuovo, dove il viaggiatore conserva qualche memoria familiare perché in tempi remoti vi lavorò il nonno. Più che il paese dell’utopia sembra quello dei “zafarani”, ce ne sono chilometri appesi a seccare alle finestre. La gente è cordiale.

Lo avvisano del fatto che nella città vecchia si inscena uno spettacolo superbo, uno di quegli show che ora si chiamano “grandi attrattori”. Ma non è tutti i giorni, e poi il lucano all’estero è sedotto dai luoghi didattici, e dunque lascia il villaggio con amarezza e disappunto. Andando via, su un tornante che lo riporta giù al grande ibrido arteria/tratturo, una scritta di vernice rosso vivo lo ammonisce: «fujetevenn!». Lui lo fa con la tristezza nel cuore, perché era convinto che lì, in quel luogo ideale (mancato) dell’utopia, avrebbe appreso qualcosa di utile da portare con sé. Ma lo sguardo è pieno di cose da raccontare, e adesso che è lontano riesce a farlo col dovuto distacco. La penna riprende a scrivere, la memoria si schiude. Ripensa ai suoi luoghi ideali, è pronto a ripartire.

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