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Ignazio Olivieri

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Intervista al “Lucano del 2016”: «Undici medici sono pochi, e senza locali adeguati il ministero non ci riconoscerà come istituto scientifico»

POTENZA – «Più ricerca e più fondi da portare al letto del paziente»: è una di quelle frasi che fanno capire come il modello di sanità che Ignazio Olivieri ha in mente abbia molto poco dell’aziendalismo spinto e dei freddi numeri legati alle «performance». Ha, piuttosto, il calore di un approccio sociale e per così dire umano che forse si può legare alla sua formazione, appunto umanistica, e a un’idea di cura con pochi simili al Sud, forse in Italia: molto rispetto per la persona, il profitto viene dopo.

 Il problema è che, nel giorno in cui il reumatologo materano commenta il suo exploit nella consultazione sul “Lucano del 2016” promossa sul sito del Quotidiano del Sud (per lui oltre 7mila voti su 21mila, ovvero il 35% delle preferenze), tocca tener conto dell’ennesima maglia nera affibbiata al sistema sanitario lucano, pur fresco di piano di riordino: l’istituto Demoskopica, infatti, attribuisce alla Basilicata il record di emigrazione sanitaria. «Ecco – dice Olivieri in una pausa di una giornata al solito movimentata – partiamo proprio da qui».

 Per lei non sono tutto, eppure i numeri sono ostinati.

 «Lo so. E infatti sono numeri anche i nostri 300 pazienti. Ma per restare all’emigrazione sanitaria mi piace ricordare che solo 30 di questi pazienti sono lucani: tutti gli altri vengono da ogni parte d’Italia. Piemonte, Lombardia, Abruzzo: stamattina abbiamo ricevuto una telefonata da una paziente di Pescara. Si può dire che a Reumatologia siamo gli unici a fare immigrazione sanitaria: arrivano qui dalla Calabria, dalla Campania, dalla Sicilia…».

 Stiamo ai numeri: da polo affermato di eccellenza nazionale, su quanti medici conta la Reumatologia lucana?

 «Undici, ovvero 9 al San Carlo e 2 su Matera».

Alla vigilia dei 20 anni di attività c’è bisogno di rinforzi. «Il nostro è un polo di eccellenza che richiama pazienti da tutta Italia. Ma servono più fondi»

 Da quanto tempo ci siete?

 «Siamo nati nel 1998, quando l’allora assessore regionale Bubbico decise di dare vita alla Reumatologia lucana. Prima non c’era nulla. Fu costruita a tavolino, io lasciai Bologna per tornare nella mia regione. Mi seguì mia moglie, che è di Trivigno, comunità che in un certo senso mi ha adottato…».

 Se non dietro, accanto a un grande uomo c’è sempre una grande donna. Ecco spiegata quell’esultanza di Trivigno sul web dopo la sua incoronazione a personaggio del 2016…

 «Esatto (sorride). Ma mi ha colpito moltissimo l’apprezzamento della gente comune, non del mondo accademico bensì dei 7mila lucani e non. Sono contribuenti, gente che paga per avere un servizio. La vostra iniziativa ha un’importanza sociale, grazie per quello che avete fatto».

 L’umanizzazione della cura è un aspetto cui lei sembra molto legato.

 «È così: è indubbio che all’esperienza e alla qualità della prestazione noi cerchiamo di affiancare l’informazione costante su malattia, terapia e risultati. “Il nostro datore di lavoro è chi paga le tasse”, lo ripeto sempre ai miei collaboratori».

 «Grazie a una diagnosi precoce e alle cure eccellenti del prof. Ignazio Olivieri sono potuto tornare in pista» ha detto al Quotidiano l’atleta olimpico Francesco Scuderi, che dopo Sydney 2000 ha scoperto e vinto la sindrome di Behçet proprio «grazie all’eccellenza» dell’ospedale San Carlo, potendo poi tornare in pista: ha raccontato la sua storia lo scorso settembre a Matera nel corso di un convegno internazionale dedicato alla malattia immunitaria. Quel congresso è stata un’altra tappa importante, non crede?

 «Credo che quello sia stato il miglior congresso medico mai tenuto in Basilicata: noi medici lucani siamo stati pari fra i pari».

 La standing ovation tributatale ne è una prova. Torniamo però agli aspetti meno entusiasmanti: bastano 11 medici reumatologi in un reparto che serve tutta l’Italia? Che liste d’attesa ci sono?

 «Le liste d’attesa sono troppo lunghe: certo, i lucani hanno la precedenza e anche per chi viene da fuori siamo duttili, valutiamo caso per caso. Però il problema è un altro…».

 Quale?

 «Che non siamo più Unità Operativa ma Istituto Reumatologico Lucano, e abbiamo una mission: nel 2017 dobbiamo trasformarci in Irccs (Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico – ndr). Il 22 ottobre 2015 a Roma ho partecipato a un tavolo a quattro con il dg Maglietta, il sottosegretario De Filippo (oggi al ministero dell’Istruzione –ndr) e il dg del ministero della Salute, Leonardi, il quale assicurò che dopo un anno sarebbe tornato per condurre un’ispezione ed eventualmente autorizzare la struttura».

 Come andò a finire?

 «In realtà il ministero pose 4 paletti: aumentare l’attività scientifica e di ricerca e assumere ricercatori. Su questo, lavorando anche nei weekend, nei giorni festivi e di mattina presto abbiamo onorato gli impegni. Così come abbiamo fatto assumendo cinque ricercatori».

 E sulle altre due indicazioni ministeriali?

 «Sulla turnazione dei reumatologi, da sottrarre alle guardie mediche notturne e festive per come abbiamo chiesto anche due anni fa al governatore e al dg Maglietta, ma anche sui locali da approntare, ancora nessuna riposta. Ma adesso le istituzioni devono scegliere: il bando di gara non è stato ancora fatto, è il motivo per cui a settembre dissi a Leonardi di non venire per la sua ispezione…».

 Il suo è un appello alla politica e ai vertici della sanità regionale, insomma

 «Sì: si riparta subito, a giugno potremo avere i locali altrimenti il rischio è che il 2017 passi senza che la Reumatologia, da eccellenza qual è, non diventi Irccs. Quelle 7mila persone che mi hanno votato chiedono questo».

 Servono anche altri medici?

 «Almeno altri 3-4. Si potrebbero impiegare per il 50% del tempo nella ricerca e per il restante 50% come medici sul territorio nell’ottica di un rafforzamento della rete reumatologica regionale, in un territorio che invecchia: come fa un anziano di Terranova del Pollino, giusto per fare un esempio, a venire a curarsi qui? E poi più assunzioni in futuro significano più visite. E meno liste d’attesa».

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