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ROMA – Sebbene le centrali e gli impianti nucleari italiani siano completamente inattivi, dal punto di vista della produzione energetica, dal 1990, sulle tasche degli italiani gli effetti di quella pregressa attività pesano ancora per circa 7,9 miliardi di euro l’anno. A tanto ammontano – stando all’ultima relazione della Commissione ecomafie – i costi per giungere alla totale demolizione degli impianti e alla messa in sicurezza dei relativi rifiuti radioattivi. Obiettivi che, stando alle previsioni del 2008, avrebbero dovuto essere raggiunti già 2 anni fa ma che continuano invece a scivolare in avanti e che, stando alle più recenti previsioni, non saranno realizzate prima del 2035.

A sottolinearlo è il Csel, il Centro Studi enti locali, in un dossier realizzato per l’Adnkronos. Una piccola percentuale delle enormi risorse che ruotano intorno al mondo del nucleare è appannaggio degli enti locali più vicini ai siti interessati da depositi delle scorie ed ex centrali. Tra il 2004 e il 2019, sono state trasferiti circa 240 milioni e 650.000 euro ai 63 Comuni e alle 8 Province che ospitano o sono prossimi ai siti delle centrali nucleari o degli impianti del ciclo del combustibile nucleare italiani.
Cifre, spiega il Csel, che variano enormemente da amministrazione ad amministrazione e che, in alcuni casi, spostano poco o nulla nel bilancio degli enti ma che, in altri, rappresentano invece un “tesoretto” tutt’altro che irrilevante. In termini assoluti, si va dal caso limite di Roccamonfina, nel Casertano, cui sono stati assegnati 15 euro per il 2019 (anno a cui fa riferimento l’ultima delibera Cipe, approdata in Gazzetta ufficiale a inizio 2021) ai 2 milioni e 275.447 euro assegnati a Saluggia, comune con meno di 4mila abitanti in provincia di Vercelli, tristemente noto per il ritrovamento, nel 2018, di fusti tossici sotterrati nell’area ex Sorin.
Ma quali sono i criteri che regolano la ripartizione di questi fondi? Le risorse vengono suddivise tenendo conto delle stime di inventario radiometrico dei siti, dal quale si desume quanti rifiuti radioattivi siano presenti sul territorio, la radioattività presente negli impianti e il combustibile nucleare fresco e irraggiato eventualmente presente. I circa 15 milioni destinati annualmente a questi enti sono una eredità del secondo Governo Berlusconi che nel 2003 emanò un decreto legge dedicato proprio al tema della raccolta, smaltimento e stoccaggio dei rifiuti radioattivi.

I denari in questione, così come quelli che servono per la gestione degli impianti e quelli che serviranno per costruire il deposito unico che dovrebbe mettere la parola fine alla storia delle centrali nucleari italiane, derivano dall’aliquota della componente tariffaria A2 della bolletta elettrica.
-Sebbene si parli di volumi tutt’altro che irrilevanti, i rifiuti radioattivi ancora presenti sul territorio italiano sono ormai una quota residuale rispetto a quelli che sono stati e tuttora vengono prodotti. L’Isin (Ispettorato Nazionale per la Sicurezza Nucleare e la Radioprotezione), con un comunicato stampa del 30 novembre 2020, ha dichiarato che il 99% del combustibile irraggiato delle quattro centrali nucleari italiane dismesse non si trova più sul suolo nazionale.


Come anticipato, è stato inviato in Francia e in Gran Bretagna, per essere sottoposto a riprocessamento, a seguito del quale dovrebbe rientrare in Italia. Attualmente sul territorio nazionale sono presenti 31.027,30 metri cubi di rifiuti radioattivi provenienti anche dal settore medico e industriale. La soluzione definitiva per convivere, nel modo più sereno possibile, con questa mole di scorie è stata individuata nel progetto di un Deposito Nazionale per la messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi che sarà gestito da Sogin, la società interamente partecipata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze che è responsabile del decommissioning degli impianti nucleari italiani e della gestione dei rifiuti radioattivi.
Nell’azione di decommissioning – la procedura di smantellamento di un impianto nucleare con l’allontanamento del combustibile, l’accertamento del grado di contaminazione radioattiva, la decontaminazione delle strutture e la loro demolizione – l’Italia è tra i pionieri, essendo stata una delle prime realtà europee a fare marcia indietro sul nucleare. Il 5 gennaio 2021 Sogin ha pubblicato – a 6 anni dalla sua redazione – la attesissima Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee (Cnapi) per la costruzione del Deposito Nazionale dei rifiuti radioattivi.

Le Regioni candidate ad ospitare questo maxi sito nel quale si concentreranno tutti i rifiuti radioattivi di bassa e media attività sono Basilicata, Lazio, Piemonte, Puglia, Sardegna, Sicilia e Toscana. In totale, le aree giudicate idonee sono 67 e un terzo di queste si trovano sul territorio laziale.
Dopo il confronto con le istituzioni, Sogin pubblicherà la Carta Nazionale delle Aree Idonee (Cnai) per poi avviare il dialogo con le realtà locali per decidere dove sarà costruito il deposito per la cui costruzione sono previsti complessivamente circa 900 milioni di euro. Anche queste risorse perverranno dalla stessa componente tariffaria presente nella bolletta elettrica che già oggi copre i costi relativi allo smantellamento degli impianti e delle centrali nucleari.


Il materiale presente nel deposito deriverà, per il 60%, dall’esercizio e lo smantellamento degli impianti nucleari e, per il restante 40%, dalle attività di medicina nucleare, industriali e di ricerca. L’avvio della costruzione del deposito e del Parco tecnologico ad esso collegato è previsto non prima del 2026 con il termine dei lavori fissato al 2029, anche se molte sono ancora le incognite sulla data certa di avvio delle attività. Questo è dovuto principalmente alla probabile mancanza di candidature spontanee per la costruzione del deposito da parte delle aree individuati dalla Cnapi.

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