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Una immagine dell'alluvione del 1959

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Ancora vivo il ricordo dell’alluvione del 1959, protezione civile e sensibilità dei cittadini uniche armi per salvare il Metapontino dall’incubo maltempo

Piogge alluvionali, ne sapevano già qualcosa i Greci nel Metapontino impegnati in opere d’irregimentazione idrica dei loro insediamenti. La storia meteorologica sembra tuttavia destinata a ripetersi. Se piove oltre il dovuto, da sempre fiumi e torrenti esondano e anche da noi si portano via tutto, vite, case, vaste aree coltivate. Immancabili, subito dopo, fioccano le solite ricette di politicanti e tecnici in cerca d’autore, ma senza chissà quale seguito concreto.

Ora, pensare che si debbano dirottare le risorse del Pnrr per riconvertirle in armi, qualche perplessità l’alimenta anche nell’uomo comune. Allo stesso modo, è difficile non farsi assalire da simili dubbi, soprattutto se si coltiva, o addirittura si costruisce sulle aree golenali. Possiamo forse aspettarci violini e rose dal futuro? Oppure è più prevedibile l’azione della natura che, prima o dopo, finisce per riprendersi ciò che le appartiene? E a quali potenziali pericoli sono esposti quelle popolazioni condannate a convivere in territori soggetti a rischi idraulici?

Interrogativi campati in aria, oppure condizioni estreme che costringono un’intera comunità, quella che popola il Metapontino, a esporsi a catastrofiche emergenze come quelle periodiche che fanno andare sott’acqua tutta la costa? Chi si occupa attivamente di Protezione civile, spesso e volentieri, finisce nel mirino di salaci battute dal dubbio gusto scaramantico. Ma se la storia è maestra di vita, per quale ragione bisognerebbe sfidare perennemente la tragedia?

IL MALTEMPO, L’INCUBO DEL METAPONTINO

Nel Metapontino, nell’arco di pochi chilometri, sboccano uno vicino all’altro i cinque fiumi lucani. Quando sono in piena e al contempo il vento soffia verso terra, enormi masse d’acqua inondano una fascia larga una ventina di chilometri caratterizzata da un’intesa attività agricola, ma la cui altitudine massima è di 15 metri sul livello del mare. Negli ultimi anni, dopo l’alluvione del 1959, sono state ben 90 le richieste di risarcimento danni avanzate dai sindaci dei comuni che si affacciano su questo territorio. Oltre 50 di queste richieste, quasi una all’anno, sono state riconosciute, non sono mancati fondi pubblici per un problema che, però, non è affatto risolto.

Oltre mezzo secolo fa da Ginosa a Nova Siri e, poi, fino al castello di Policoro, in alcuni punti l’acqua salì di tre metri perché le anse terminali dei fiumi sparirono di colpo, gli argini furono travolti e circa 4 chilometri di binari ferroviari dello Stato li inghiottì la mareggiata. Oggi, la situazione, per certi versi, è ancora più drammatica. Lo è perché i residenti di allora erano poco più di 10mila e duemila furono gli sfollati; ora, il Metapontino conta oltre 100mila abitanti. Le dighe ci sono, ma a monte, e quando come nel 1959 caddero circa 400 millimetri di pioggia non servirono a nulla. Tra migliaia di ettari di terreni in rovina si contarono 11 morti. Un bilancio da tenere bene a mente perché l’esposizione al rischio è cresciuta, i suoli sono stati impermeabilizzati, le attività antropiche concentrate, le strutture di collegamento incrementate, le reti complicate ed ampliate.

Altri aspetti sono fortunatamente in crescita, la capacità di previsione ed intervento della Protezione civile e la sensibilità dei cittadini. Se non saranno ignorati potranno essere la vera salvezza nei confronti di drammi come quello di Sarno o ultimamente dell’Emilia Romagna.

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