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Mario Draghi

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CON l’unità d’Italia avviata nel 1861 si è posta per la prima volta la “questione meridionale e non poteva essere diversamente. Sono passati 160 anni e il problema è ancora in attesa di soluzione. Si sa che questioni come questa, almeno in Italia, viaggiano lungo ere geologiche.
Il recovery plan molto probabilmente rappresenta l’ultima occasione di rilancio del mezzogiorno, almeno in questo secolo.
Per rifarmi alla metafora di Seneca, il recovery plan rappresenta il vento, sapendo che “non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”.

Dal secondo dopoguerra ad oggi, il marinaio, ossia la politica e le forze che la sostengono (partiti, corporazioni, istituzioni pubbliche, magistratura, sindacati) hanno fatto di tutto e di più per accantonare il tema della unificazione economica, nonostante abbia imperversato la favola , quasi un mantra, secondo la quale “l’Italia sarà ciò che sarà il sud”.

La politica con le sue articolazioni istituzionali si è concentrata nella definizione della Costituzione italiana, cosa necessaria per reimpostare il processo democratico dopo il ventennio fascista, ma che conteneva in nuce il primo compromesso tra le due grandi chiese, quella democristiana e quella comunista (copyright Francesco Alberoni e Gaetano Salvemini) , caratterizzato da regole che di fatto impedivano “la democrazia decidente”, cosa nefasta ad avviso di non pochi intellettuali (di sinistra?), ossessionati dal pericolo di una ricomparsa del ventennio fascista , che hanno contribuito fattivamente alla bocciatura del referendum sulla Costituzione del 2016, preferendo evidentemente una democrazia immobile, dai compromessi e intermediazioni infiniti, che hanno caratterizzato la storia d’Italia fatta di passati che non passano, con nessuno dei nodi storici, ideologici, politici sciolti una volta per tutte, con il Pci che non è mai voluto andare a Bad godesberg per diventare socialdemocratico , rimanendo ancorato ai miti del comunismo, sorvolando sulle pratiche attuazioni, attaccandosi a diversità molto discutibili e alla strategia del compromesso storico completamente fallito (si rinvia per un approfondimento all’ultimo libro “Libertà inutile” di Gianfranco Pasquino).

Il risultato fantastico della bocciatura del referendum, di cui sopra, è lo sfascio politico che stiamo vivendo con sovranismi, populismi e ideologismi affidati a Salvini, Grillo e ai cascami delle vecchia sinistra, tutte interessate a costruire soltanto filiere di potere. Non sarebbe stato, caro Pasquino, il caso di provare il budino, mangiandolo e poi eventualmente apportare correzioni? In tutto questo ginepraio politico che parte da lontano non c’era e non c’è tutt’ora posto per la questione meridionale : alleanze sì , ad iosa, ma senza visioni, riforme e programmi di lungo periodo.

Il Pci svolse una azione di penetrazione nel Mezzogiorno, ha rilevato Giuseppe Galasso, con “una logica di marcia verso il potere che non aveva nel Sud i suoi centri ispiratori e motori” , al punto tale da consentire al grande meridionalista campano di considerare l’azione del Pci nel sud come” meridionalismo di complemento”, non avendo un progetto politico ben strutturato di livello nazionale entro cui collocare la questione meridionale, pur disponendo di una forza politica con milioni di iscritti e migliaia di sezioni, sparse sul territorio, sostanzialmente congelati, aspettando Godot.

A Galasso hanno fatto eco molti altri intellettuali, tra i quali di estremo interesse è stata l’opera di Ermanno Rea , nell’ottica meridionalistica, in riferimento all’azione del Pci.
Il grande scrittore napoletano, coadiuvato da Gerardo Marotta, presidente dell’istituto italiano per gli studi filosofici, si chiese se e come ci sia responsabilità del Pci nello sfascio dl Sud. Scrisse due libri illuminanti: Mistero napoletano e il caso Piegari, con i quali condannò l’azione brutale di espulsione del gruppo Gramsci e di Piegari, in particolare, privando il partito di energie giovani di grande spessore culturale, con effetti negativi non soltanto nel partito, ma anche nelle scelte politiche meridionali.

Marotta, al riguardo allargò il campo di analisi , parlando di “incultura e volgarità del bestiame che governa il Paese”.
In realtà, nel Pci di allora si contrapponevano due visioni sulle cose da fare nel Mezzogiorno : quella amendoliana portatrice di una visione regionalistica (evidentemente le continue visite di Giorgio Amendola ad Acqua fredda di Maratea da F. S. Nitti sono servite a poco, essendo il grande meridionalista decisamente ostile alla nascita delle regioni) e quella del gruppo Gramsci capeggiata da Piegari concepita come nodo nazionale, basata sulla “integrazione politica dell’Italia nel segno della egemonia operaia alleata ai contadini e sottoproletari meridionali”. Prevalse la linea amendoliana che tra l’altro condusse una grande battaglia contro la Cassa per il Mezzogiorno prima maniera, quella cioè che ridusse per la prima ed unica volta significativamente il divario Nord –Sud.

I risultati fallimentari della scelta amendoliana erano funzionali oggettivamente alla continuazione del predominio Dc nel Mezzogiorno, con l’aggravante della scomparsa della questione meridionale dall’agenda dei governi nazionali, rimanendo confinata in studi, convegni e dibattiti domenicali che non approdavano e non approdano tutt’ora a qualcosa di concreto. Il regionalismo ha raggiunto attualmente ulteriori profonde divisioni e frammentazioni nel Paese che ben conosciamo, gestite da tanti vicerè regionali, con perfino un re sole, De Luca , governatore della Campania (copyright di Sabino Cassese), non a caso provvisto di lanciafiamme.

Il cattocomunismo nelle sue variegate formule istituzionali ha reso di fatto impossibile riforme strutturali coerenti con i mutamenti accaduti al livello globale.
Il risultato non certo entusiasmante è che la borghesia di luigini di leviana memoria si è sostanzialmente riproposta alla grande attraverso le regioni. I contadini attuali riguardano gli agricoltori, gli artigiani, i commercianti, le piccole e medie imprese, ossia la gente che la mattina di buon ora si alza e va a lavorare, misurandosi col mercato, costretta a produrre reddito, nonostante la cattiva politica, con le sue sovrastrutture saprofite, che si sono sempre più personalizzate e diversamente ideologizzate, abolendo a chiacchiere non solo la povertà ma anche la questione meridionale.

La più grave irresponsabilità da attribuire ai governi degli ultimi 30 anni consiste nell’aver negoziato alleanze spurie, per puro potere, dando spazio enorme alla Lega nord, spostando la capacità di decisione alle regioni e al sistema delle autonomie locali, da parte dei governi centrali, delineando un nuovo sistema elettorale per le regioni nel 1993 , rafforzando i poteri dei governatori attribuendo loro la facoltà di nominare assessori di propria fiducia nel 1999, il suffragio diretto dei presidenti delle giunta regionale , la revisione del titolo V nel 2001, caricando di nuove funzioni le regioni.

E’ appena il caso di rilevare che lo spirito antiunitario viene da lontano, dal “sicilianismo”, denunciato da Leonardo Sciascia, che si rifà all’ideologia sicilianista, emersa agli inizi del ‘600 sostenuta dall’aristocrazia isolana che in non poche occasione si è evoluta verso il separatismo, fondato sulla teorizzazione della “nazione siciliana” al neoborbonismo dei giorni nostri che aspetta le prossime elezioni per farsi partito e che Dino Messina, lo scrittore lucano, nato a Viggiano, nel suo libro “Italiani per forza” ha sfatato, denunciando le fake news neoborboniche, mostrando i sentimenti unitari già manifestati ben prima della missione garibaldina. Riguarda altresì il disegno secessionista leghista, quello di Zaia, presidente del Veneto che ha ipotizzato con un referendum, bocciato dalla Corte costituzionale, un Veneto indipendentista, le regioni a statuto speciale che continuano a godere di privilegi ormai antistorici.

La più grave irresponsabilità da attribuire ai governi degli ultimi 30 anni consiste nell’aver attivato alleanze politiche, non in vista di riforme di struttura nell’interesse dell’Italia , ma nell’aver creato le premesse non solo normative, per spostare la capacità di decisione alle regioni ed al sistema delle autonomie locali, delineando un nuovo sistema elettorale per le regioni nel 1993, rafforzando i poteri dei “governatori ,attribuendo loro la facoltà di nominare assessori di propria fiducia nel 1999, il suffragio diretto dei presidenti delle giunte regionali , la revisione del titolo V nel 2001, dando o prevedendo ulteriori funzioni agli istituti regionali.

A questo punto si impongono alcune domande: si può parlare di Paese coeso con le situazioni appena descritte? Se è vero, come è vero, che l’Italia è profondamente divisa, è fattibile pensare alla soluzione ,sia pure graduale, della questione meridionale? E’ credibile l’idea esternata da 500 comuni del Sud, tra i quali ci sono le più grandi città meridionali, di chiedere che il 70% dei fondi del recovery plan venga al Mezzogiorno? Suvvia, siamo seri. Non vorrei essere nei panni di Draghi, sapendo la fine che hanno fatto coloro che hanno pensato di cambiare il Paese.

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