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Due ragazze in una pizzeria del Potentino alle prese con uomini che volevano a tutti i costi provarci, nell’indifferenza degli altri avventori. Il racconto in prima persona: «Dopo il no ha sbattuto i pugni sul nostro tavolo: mai nessuna mi ha rifiutato, con un accento spiccatamente del nord, probabilmente veneto»

di MARIA GRAZIA ZACCAGNINO

CONDIVIDO il racconto di un increscioso episodio accaduto ieri sera in un noto locale dell’hinterland potentino perchè ho appurato sulla mia pelle quanto siamo lontani dalla piena attuazione e interiorizzazione del concetto di parità di genere. Con la speranza che questa denuncia sia da monito e risvegli le coscienze. Perché no significa no. In tutte le lingue. In tutti i Paesi. A tutte le età. Anche in una pizzeria, in un anonimo martedì sera di un maggio potentino.
Se vedi due donne sole al tavolo di un locale, non significa che sono in cerca di compagnia.

Ma posso immaginare cosa avranno pensato quei due neuroni che giocano a ping pong nel tuo cervello: sono sole e piuttosto carine, non arrivano a quarant’anni, sorridono e una di loro ha addirittura la gonna… sicuramente ci stanno!
E così provi a fare la tua mossa e mandi in avanscoperta il cameriere. “I signori alle vostre spalle avrebbero piacere ad offrirvi qualcosa”. Per noi non è necessario consultarci neanche per un momento e, all’unisono, decliniamo l’offerta: “No, grazie”.
Nemmeno la curiosità di voltarmi a guardare chi fossero i “gentiluomini”. Io e la mia amica continuiamo a parlare, completamente immerse nella miriade di aneddoti da raccontare e da condividere. Da quando ho interrotto la palestra, le occasioni per stare insieme sono diminuite. Poi c’è stato il periodo nero per lei: prima la malattia del padre e poi l’ultimo saluto.

Questa serata l’avevamo proprio desiderata. Per stare insieme, raccontarci, regalarci qualche ora tutta per noi. Solo per noi. Mio nipote poco prima al telefono: zia, hai cenato? Non ancora, stasera vado a mangiare la pizza con una mia amica. E lui: perché solo voi due? Rispondo: perché siamo amiche e vogliamo regalarci una serata tutta nostra. Voglio che cresca con la convinzione che sia naturale che due amiche, due amici, una coppia mista, un ragazzo col suo gatto o una signora anziana col suo canarino, possano uscire da soli senza dover dare spiegazioni a nessuno e senza per questo dover essere giudicati o derisi, “Forse ho capito da chi arrivava l’offerta”, mi dice l’amica guardando oltre le mie spalle. “C’è un tipo che continua a fissare”.

L’osservazione si perde tra i mille discorsi molto più interessanti e la pizza fumante che ci è appena stata portata al tavolo. Ogni aneddoto è accomunato da frasi tipo: ma come, non te l’avevo detto? Ma davvero non lo sapevi? Ma quando ci siamo viste l’ultima volta? E così trascorre la serata, tra aggiornamenti e racconti più o meno inediti. Un dolce per chiudere la serata e proprio mentre affondiamo il cucchiaino nell’ultima frazione di tiramisù, ecco che si palesa un perfetto sconosciuto e, pugni sul nostro tavolo, si interpone tra i nostri discorsi. “Come mai avete declinato l’offerta?” In un primo momento non avevo compreso. Subito aggiunge: “Vi possiamo offrire qualcosa da bere?”

“No, grazie. Non vogliamo niente”. Non si rassegna, anzi le domande si fanno sempre più incalzanti e sembrano non tener conto dei continui e fermi rifiuti. “Ma come mai non volete niente? Un caffè, un digestivo? Cosa fate tutte sole?”. L’accento spiccatamente del nord, probabilmente veneto. Quasi si sentisse autorizzato dal suo essere “di passaggio” a saccheggiare le donne del posto, un Sud che arranca, e andare via indisturbato. Gli facciamo notare che “no significa no”, che “non vogliamo nulla, che lo conosciamo e…” stavo per aggiungere “non abbiamo intenzione di fare la sua conoscenza” che lui subito tende la mano. Io sposto la mia e lui mi accarezza il braccio. “Non mi tocchi”. Il mio tono di voce è più irritato. Io e la mia amica ci guardiamo e ci capiamo al volo. “Gradiremmo essere lasciate sole”. “Ma perché volete stare da sole? Di cosa parlate? Siete fidanzate?”. Niente, non molla. “Le abbiamo già chiesto di allontanarsi, è pregato di non infastidire”.

Quasi sconcertato guarda l’amico, sbatte i pugni sul tavolo, il nostro tavolo, e con un sorriso beffardo esclama: “Non mi era mai capitato che qualcuna mi rifiutasse”. “C’è sempre una prima volta”, gli faccio notare. Ride, borbotta qualcosa e si avvicina sempre di più. La mia amica si ritrae e chiede: “Ha bevuto? Stia lontano da noi”. Ma niente, il tipo proprio non vuol saperne di lasciarci in pace, così mi alzo e vado verso il bancone della pizzeria. “Un vostro cliente ci sta importunando, potete intervenire o chiamo i carabinieri?” Il tipo mi segue e si mette a urlare: “Ma quale carabinieri? Questa è pazza!” Sento gli sguardi dei clienti su di me che si interrogano su cosa stia accadendo. In un attimo realizzo che l’intento del disturbatore è quello di distorcere la realtà e di far ricadere la colpa su di me. Del resto due donne che escono tutte sole devono avere per forza qualcosa che non va. Magari sono due isteriche che nessun uomo vorrebbe al proprio fianco. O due femministe sfegatate con una omosessualità latente. E invece no, caro signor disturbatore. Non siamo isteriche e abbiamo una sessualità ben definita. E’ solo che non gradiamo essere importunate nella nostra serata, né da lei né da nessun altro. Il tipo continua ad inveire contro di me: “Tu sei pazza!” E io: “Mi dia del lei, non ci conosciamo”. “Ti do del tu e ti dico che sei pazza”. Tutto questo con decibel molto elevati, in un locale piuttosto affollato ma nessuno che si fosse alzato e fosse intervenuto a sedare gli animi. Solo i due camerieri si avvicinano a me e alla mia amica cercando di tranquillizzarci mentre il molestatore continua a imprecare contro di noi. Ero intenzionata a chiamare i carabinieri ma i camerieri riescono a dissuadermi. Torno al tavolo scossa e decisamente infastidita. Prima di tutto dall’aggressione del molestatore e poi dall’incuria di tutti i presenti.

Quando i due uomini vanno via, mi avvicino ai proprietari del locale e lamento tutto il mio disappunto: “Siamo state aggredite nel vostro locale, abbiamo chiesto il vostro intervento ma nessuno ci ha tutelate. Siamo due ragazze sole, chi ci assicura che quei due non ci seguano in macchina? Uscite da qui andremo subito dai carabinieri a sporgere denuncia”. “Fate bene”, ci ha risposto la proprietaria, visibilmente in difficoltà per l’accaduto ma, probabilmente, sentendosi in difetto per non essere intervenuta. “Pensavamo vi conosceste”, aggiunge. Già, come se fosse normale urlare in quel modo in un locale pubblico tra persone “amiche”. E anche se fosse stata una persona conosciuta, nel momento in cui mi sento aggredita e invoco aiuto perché nessuno interviene? Con quale coscienza tutte quelle donne e uomini sono andati a dormire una volta tornati a casa? Com’è possibile che a nessuno sia scattata la molla del senso civico che spinge a intervenire quando un altro essere umano invoca aiuto? Siamo frastornate. E’ tutto così surreale eppure stava accadendo davvero.
Paghiamo il conto e andiamo via. Un cameriere si offre di accompagnarci alla macchina e ci chiede il numero di telefono per verificare, dopo una decina di minuti, che fossimo rincasate senza problemi.
A casa siamo rientrate ma non è vero che i problemi non ci sono stati. Non è vero che “ma sì, alla fine non è successo nulla di grave”, non è vero che “tanto è solo un pallone gonfiato colpito nella sua virilità”, non è vero che “vi siete difese a dovere”.
Perché qualcosa di grave, invece, è successo.

È successo che due donne, nel tentativo di trascorrere una serata di intima tranquillità, si trovino a doversi difendere dalle violenti incursioni di un perfetto sconosciuto che prima tenta di approcciarle, con allusioni, sfioramenti corporei e continue insistenze e poi, rifiutato, cerca di dipingerle come le pazze isteriche di turno. E qualcosa di altrettanto grave è successo quando i proprietari del locale, chiamati a intervenire, sono rimasti dietro al bancone, così come gli altri clienti sono rimasti incollati alle proprie sedute.
Una serata che doveva allontanarci dai pensieri, si è trasformata in un incubo. Perché ora tocca far capire a tutte quelle persone che minimizzano, che se l’aggressione non è degenerata, è stato solo perché ci trovavamo in un locale pubblico. Non sono certa che l’incontro con quell’uomo, in una strada poco praticata, si sarebbe limitato all’aggressione verbale. Dopo il rifiuto ho visto nei suoi occhi prima l’incredulità e poi la rabbia. Non lo so se, in assenza di altre persone, sarebbe riuscito a controllare quella rabbia. Non lo so se la prossima volta che riceverà un due di picche si limiterà ad inveire contro la pazza di turno. Non lo so se la prossima pazza riuscirà a reagire come abbiamo fatto noi, forti della presenza di altre persone.
E’ grave che, nel 2016, due donne sole in un locale siano ancora percepite come “in cerca di compagnia”. E’ grave che un uomo non accetti di essere respinto e reagisca con immotivata violenza ad un “no” che non è mai un “sì mascherato”. No significa no. Non significa: me la tiro un po’ ma se insisti poi diventa un sì.

Non abbiamo bisogno di giochetti. Sappiamo esattamente cosa vogliamo e se ti diciamo no, ti metti l’orgoglio maschile, insieme alla coda, in mezzo alle gambe, e te ne torni a casa a giocare alla play station e a dare libero sfogo alla tua virilità repressa.
No significa no. In tutte le lingue. In tutti i Paesi. A tutte le età. Anche in una pizzeria, in un anonimo martedì sera di un maggio potentino.

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