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L'ospedale San Carlo di Potenza

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POTENZA – Non luogo a procedere per l’ex primario del reparto di cardiochirurgia del San Carlo di Potenza, Nicola Marraudino: si è chiuso così, venerdì scorso, il processo di secondo grado per il caso che tra settembre e ottobre del 2014 ha sconvolto l’azienda ospedaliera regionale portandola alla ribalta delle cronache di tutta Italia. Fino all’arresto dello stesso Marraudino e altri due cardiochirurghi, la chiusura – temporanea – del reparto, che un tempo era il fiore all’occhiello di tutta la sanità lucana, e le dimissioni del primario e dei vertici aziendali.

A pronunciare la parola fine per la complessa vicenda giudiziaria innescata a fine 2013 dagli esposti anonimi di un misterioso “corvo” del San Carlo è stata la Corte d’appello di Potenza. Nel processo, il collegio presieduto da Cataldo Collazzo ha preso atto, in particolare, dell’avvenuto decorso dei termini di prescrizione dell’unico reato per cui a settembre 2019 il primario Marraudino era stato condannato a due anni di reclusione. Ovvero il falso in atto pubblico in relazione ad alcune omissioni nel registro operatorio. Respinta, quindi, la richiesta di assoluzione nel merito che era stata rinnovata, in aula, dai difensori dell’ex primario: gli avvocati Francesco Auletta e Paola Avitabile.

Il primario Marraudino, che nel 2015 è rientrato in servizio al Policlinico di Bari, era stato già assolto nel processo di primo grado dall’accusa di omicidio colposo assieme agli altri due cardiochirurghi del San Carlo coinvolti: Michele Cavone (in quiescenza per raggiunti limiti d’età) e Matteo Galatti (da anni in servizio in un’altra azienda sanitaria). Nell’esposto del “corvo” che ha dato il via agli accertamenti, infatti, si parlava della morte in sala operatoria di una settantenne, Elisa Presta, arrivata a Potenza dalla Calabria ad aprile del 2013 per un trapianto di valvole cardiache. Quindi si accusava il primario e i suoi due sottoposti di una manovra chirurgica “killer” per nascondere gli errori commessi durante la fase iniziale dell’intervento. A partire dall’impiego di Galatti come secondo operatore sebbene smontasse dal turno di notte. Un fatto non menzionato nel registro operatorio, l’impiego di Galatti, che dopo l’insorgere delle criticità venne inviato ad avvisare i familiari della paziente della situazione.

A sostegno della tesi del “corvo”, a fine agosto del 2014, era spuntato un audio, registrato da un quarto cardiochirurgo, in cui si sente Cavone confessare di aver lasciato “ammazzare” la paziente ai colleghi. Di qui l’ampia eco mediatica della vicenda, e la decisione di spiccare un’ordinanza di arresti domiciliari per i 3 medici indagati. Un provvedimento eclatante, quest’ultimo, per un caso di presunta colpa medica. Sullo sfondo, d’altro canto, restava ancora il sospetto di qualcosa di ben più grave, rafforzato dalla registrazione di Cavone. Durante il processo di primo grado, nonostante le insistenze del pm Annagloria Piccininni, il giudice Lucio Setola aveva respinto la richiesta di acquisire tra le prove a sostegno dell’accusa l’audio-confessione di Cavone, dal momento che il collega individuato come l’autore della registrazione, Fausto Saponara, ne aveva disconosciuto, sotto giuramento, la paternità.

Respinta anche la richiesta di acquisire la “contro-registrazione” effettuata dalla giornalista che aveva diffuso l’audio di Cavone, Giusi Cavallo, durante un incontro con Saponara e la moglie-magistrato, l’allora presidente del Tribunale del riesame di Potenza Gerardina Romaniello. Incontro in cui Saponara ammise di aver registrato il collega, definito dalla moglie “un pazzoide”, e diede indicazioni alla cronista, assieme alla coniuge, per «amplificare» il racconto sul caso Presta, smuovendo la “supposta inerzia” del pm che se ne stava occupando, con l’obiettivo di propiziare un esito favorevole del contenzioso giudiziario esistente tra lo stesso Saponara e il San Carlo.

In seguito all’emersione di queste ultime circostanze il Csm ha inflitto la sanzione della censura a Romaniello, intanto trasferitasi a Salerno (sanzione confermata dalla Corte di cassazione). I cronisti del Quotidiano che che le hanno portate alla luce, invece, sono tuttora imputati con altri davanti al Tribunale di Catanzaro, in seguito a una richiesta di archiviazione non accolta, per ricettazione, calunnia e diffamazione.

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