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POTENZA – Furono in tutto 12 i potentini che quella sera persero la vita. Tanti. A cui si aggiunge il dramma dei vivi alle prese con case crollate, il freddo nelle tendopoli dislocate in diversi punti della città, il cibo. Si conteranno alla fine ben 1.052 ordinanze di sgombero, 133 abitazioni crollate, 1.010 quelle pericolanti.

Due giorni dopo quel 23 novembre, a Potenza atterrò per portare conforto Giovanni Paolo II. E’ una città in ginocchio quella che visita per la prima volta (ci ritornerà 11 anni dopo). Davanti all’ospedale San Carlo per lui non ci sono le folle oceaniche ad attenderlo.

L’arcivescovo di allora monsignor Giuseppe Vairo, qualche politico, qualche medico e pochi altri. Nessuna bandierina sventolante. C’è un bambino con un giornale nella mano. Fa vedere al Pontefice i titoli che parlano di distruzione e morte. «Lo so» gli dice Giovanni Paolo II accarezzandolo. All’interno dell’ospedale visita diversi reparti. Conforta, prega e benedice. Poi si ferma poi nei pressi dell’atrio dell’ospedale e improvvisa un discorso. «Ho sentito un dovere, un impulso del cuore della coscienza di venire qui».

«Io vengo – aggiunge – per dirvi che siamo a voi per darvi un segno di quella speranza che per l’uomo deve essere l’altro uomo. Per l’uomo sofferente, l’uomo sano; per un ferito, un medico, un infermiere, per un cristiano, un sacerdote».

«Non posso portarvi niente più di questa presenza». Nella sofferenza aggiunse alla fine: «si realizza la presenza di Cristo, il mondo stigmatizzato dalla croce porta in sé la speranza della Resurrezione».

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