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La protesta dei lavoratori precari lucani ai margini delle celebrazioni per il quarantennale dell’Unibas e l’appello al presidente Mattarella

«NOI non cerchiamo un lavoro perché ce lo abbiamo già, siamo più che preparati visto che lo svolgiamo da tanti anni, quello che le chiediamo è un intervento affinché si regolarizzi la nostra posizione lavorativa».

Si sono rivolti in questo modo in una lettera al presidente della Repubblica Sergio Mattarella i rappresentanti dei circa 1.800 beneficiari delle due principali misure regionali di contrasto al disagio sociale in sollevazione da una settimana per gli annunci di stabilizzazione traditi dall’amministrazione di via Verrastro. Vale a dire il Reddito Minimo d’Inserimento (Rmi), alimentato con una quota delle royalty incassate su petrolio e gas estratti in Basilicata, e i Tirocini di Inclusione sociale (Tis), finanziato con appositi fondi europei.

I rappresentanti dei lavori hanno atteso il corteo presidenziale esponendo striscioni e sventolando le bandiere dell’Unione sindacale di base a 200 metri dall’ingresso del polo universitario del Francioso, a Potenza, dove Sergio Mattarella era atteso per l’inaugurazione dell’anno accademico. Quindi hanno consegnato la loro lettera a un uomo della scorta del presidente «per noi – si legge ancora nel testo – questo paese non è una repubblica fondata sul lavoro, è un paese gestito da rappresentanti istituzionali che usano il lavoro nero per garantire dei servizi indispensabili, questo è anticostituzionale, oltre che profondamente ingiusto».

L’APPELLO DEI LAVORATORI AL CAPO DELLO STATO SERGIO MATTARELLA

Di qui l’appello al capo dello Stato perché si interessi all’emanazione di «una legge che preveda una selezione o concorso riservato al lavoratori impegnati in lavori socialmente utili comunque denominati, anche al di là del tetti di spesa e delle piante organiche cosi come oggi determinate, come già avvenuto in precedenza per sanare le stesse situazioni».

Nella lettera si evidenzia l’impiego dei beneficiari di Rmi e Tif «in progetti di pubblica utilità, collocati nelle scuole, nei tribunali, nel comuni, nel verde pubblico e in tanti altri ambienti di lavoro della pubblica amministrazione, svolgendo attività dove la carenza di personale e una inesistente pianificazione di rinnovo occupazionale oltre alla compressione dei livelli dei servizi minimi da assicurare alla comunità crea disagi e disservizi agli utenti, colmati in parte con il nostro lavoro gratuito e senza un regolare contratto di lavoro».

«Negli anni – prosegue il testo – abbiamo acquisito professionalità e competenze riconosciute da tutti, ma formalmente e nel fatti non siamo neanche degni di essere chiamati “lavoratori”. Non abbiamo diritto alla malattia, al contributi pensionistici, ad un giusto riposo, alla maternità, non abbiamo alcun diritto riconosciuto. Avremmo diritto a lavorare senza rischiare la vita, senza perderla, ma non essendo considerato il nostro un lavoro, spesso e volentieri, non abbiamo nemmeno la minima dotazione di sicurezza personale».

LA DISPERATA DENUNCIA DOPO ANNI DI PRECARIETÀ

«Sono passati decenni dal nostro primo inserimento in platee di pubblica utilità – insistono i lavoratori – , ci hanno chiamati con i nomi più fantasiosi e disparati pur di tenerci sempre nel mondo sommerso del lavoro nero legalizzato dalle istituzioni (…) Assistiamo disabili, guidiamo pulmini dei comuni, visioniamo documenti e atti sensibili in comuni e tribunali, siamo presenti nelle mense scolastiche e tante altre mansioni, insomma svolgiamo un regolare lavoro ma senza un regolare contratto. Questo si chiama lavoro nero e le istituzioni invece di combatterlo se ne riempiono i comuni».

«Percepiamo un sussidio più basso di un reddito di cittadinanza, solo 550 euro al mese, questa situazione ci sta distruggendo fisicamente e psicologicamente. Non riusciamo a pagare bollette, a mantenere le nostre famiglie, a garantire un’istruzione ai nostri figli. Ci sentiamo umiliati e sfruttati dalle pubbliche amministrazioni a tutti i livelli, le quali si servono del nostro lavoro senza riconoscerne il merito e i diritti. Tutto questo perché è più facile far quadrare i bilanci se una persona al posto di assumerla la marchi a vita come tirocinante, è comodo mandare avanti la macchina comunale se la regione ti assegna gratuitamente lavoratori lasciandoti meritoriamente pensare che contribuisci a strapparli dal degrado e dall’emarginazione sociale».

«Sino a quando si userà l’utilizzo di sussidi di sostegno al reddito per ottenere lavoro nero queste situazioni si ripeteranno e si nasconderanno le migliaia di posti di lavoro coperti illegittimamente».

I LAVORATORI A MATTARELLA: «PER IL FUTURO SI FACCIA ESPERIENZA DEI FALLIMENTI DEL PASSATO»

Conclude la lettera. «Chiediamo che per il futuro si faccia esperienza del fallimento della condizionalità del riconoscimento dei sussidi subordinato all’espletamento di lavori di pubblica utilità nel progetti di inclusione sociale ma che vengano instaurati veri rapporti di lavoro, con il riconoscimento di tutte le tutele previste. La preghiamo di ascoltare il nostro grido di aiuto e di non lasciarci soli in questa battaglia di dignità e giustizia».

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